Negli ultimi anni, con l’avvento dei social network, si è assistito ad un radicale cambiamento delle modalità di comunicazione che ha portato questi strumenti ad assumere un ruolo preponderante, nelle interazioni umane. Senza scomodare Umberto Eco (“i social danno diritto di parola a chi prima parlava al bar dopo un bicchiere di vino e poi veniva messo a tacere senza danneggiare la collettività”) la questione è diventata imprescindibile. Eper evitare che si possano determinare “danni di immagine” in conseguenza di un uso improprio dei social, le amministrazioni pubbliche hanno nel tempo approvato apposite linee guida a cui i propri dipendenti devono attenersi scrupolosamente. In quasi tutti i codici di comportamento compare questa frase: “Il personale si astiene dall’esprimere, anche nell’ambito dei social network, giudizi o commenti che possano danneggiare la reputazione dell’Amministrazione e la fiducia dell’opinione pubblica”. Fra le amministrazioni che si sono dotate di codici di condotta non compare, però, la magistratura ordinaria. Fra le toghe italiche, al momento, vige “l’autogestione”.

La scorsa settimana, l’Associazione nazionale magistrati, ha tentato di affrontare il tema, mettendo all’ordine del giorno una delibera che delegava la stessa Giunta esecutiva centrale ad avanzare una proposta in tal senso. Di fatto un modifica dello statuto dell’Anm. La discussione è stata subito rimandata a data da destinarsi per divergenze fra le correnti.

La regolamentazione dell’uso dei social è stata più volte affrontata anche al Csm. Ma ogni tentativo in tal senso è sempre finito in un sostanziale nulla di fatto. Nessun consigliere togato in questi anni ha mai voluto intestarsi questa battaglia. Troppo elevato il rischio di inimicarsi la base con atteggiamenti “censori”. Ci provò il consigliere laico Pierantonio Zanettin, indicato da FI, senza trovare seguito.

Quando qualche magistrato esagera su Facebook, dopo l’iniziale clamore mediatico, la situazione rientra in virtù della citata “autogestione”. Vedasi il pm che di Imperia che faceva apprezzamenti sull’aspetto fisico di Gabriel Garko o quello di Trani che, dopo il flop della sua inchiesta sulle agenzie di rating, si sfogava con i suoi follower lamentando di “essere stato lasciato solo”. Oppure il giudice di Trieste che sparava a zero contro la governatrice del Pd Debora Serracchiani ( «un errore della Storia» ), fino al presidente del Tribunale di Bologna che ha assimilato ai “repubblichini” chi era favorevole al referendum costituzionale.

Una tirata d’orecchie o poco più. Il motivo? La libertà di pensiero che deve essere garantita a chiunque. E quindi anche ad una toga. Libertà che, comunque, necessita di limitazioni imposte da esigenze di carattere istituzionale.

In soccorso dell’Anm potrebbe venire l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la quale, una volta riconosciuta al primo comma ad ogni persona la libertà d’espressione, intesa come libertà d’opinione e libertà di ricevere e di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera, prevede al secondo comma che “l’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge”. Si può, si potrebbe, ma per ora il tema non pare scuotere più di tanto la magistratura, né quella associata né il suo organo di autogoverno.

Al comitato direttivo centrale di sabato dell’Anm, ci si è soffermati con maggiore risolutezza su altre due questioni: l’accesso alla funzione di magistrato – tema riproposto dalla vicenda della scuola di formazione dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, destituito nei giorni scorsi dalle funzioni – e la norma sul rientro in servizio dei “togati” del Csm. È stata la discussione su quest’ultimo tema, in particolare, a mettere in evidenza una diffusa preoccupazione, tra le correnti, per i danni all’immagine dei magistrati. Tanto che il comunicato approvato all’unanimità da tutti i gruppi, al termine del direttivo, ha sollecitato la politica a “ripristinare il regime normativo abrogato”, che prevedeva un periodo cuscinetto di un anno, dopo il mandato a Palazzo dei Marescialli, prima di poter assumere incarichi direttivi o fuori ruolo. L’Anm ha invitato inoltre i “consiglieri uscenti e i candidati alle prossime elezioni del Csm” a “non avvalersi delle prerogative di cui alla modifica normativa”.