PHOTO
A cinque mesi dall’esplosione delle proteste che hanno attraverso le carceri italiane, si apre un nuovo, inquietante, scenario. A diffondere dettagli inediti sulla vicenda è l’Agenzia Agi, entrata in possesso di due lettere in cui alcuni detenuti raccontano di aver subito violenze da parte della polizia penitenziaria nel corso degli scontri. I fatti si svolgono tra l’8 e il 9 marzo. Mentre gli italiani si avviano alla fase più dura della pandemia, il divieto di colloqui tra familiari e detenuti per contenere il rischio di contagio innesca una sequenza di proteste in una settantina di carceri dal nord al sud del Paese. Durante le rivolte perdono la vita 13 persone, nove solo nel carcere di Modena, di cui quattro durante il trasporto in altri istituti, uno alla Dozza di Bologna e tre nella prigione di Rieti. La maggior parte di loro sono giovani e tossicodipendenti che stavano scontando condanne per reati legati alla droga. Dai primi riscontri emerge che il decesso sarebbe dovuto all’ingestione di metadone e psicofarmaci saccheggiati dalle infermerie. È questa l’ipotesi su cui si concentrano sin da subito le indagini per omicidio colposo e “morte in conseguenza di altro reato” avviate dalle procure che hanno disposto gli esami tossicologici. I primi esiti confermano l’assunzione delle sostanze, che possono essere letali, se prese in grande quantità. Ma gli avvocati delle vittime, che portano avanti le istanze delle famiglie, le associazioni attive nel mondo delle carceri e alcuni testimoni ritengono che non basti l’overdose a spiegare quanto accaduto. In particolare, due detenuti denunciano di avere subito «abusi» nel carcere di Modena e che le persone decedute nel trasporto verso altri penitenziari subito dopo la rivolta non sarebbero state visitate dai medici prima di essere trasferite, nonostante stessero male. «A me dispiace molto per quello che è successo. Io non c’entravo niente. Ho avuto paura. Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano (ammazzavano?,ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta», si legge in una delle lettere diffuse dall’Agi, firmata dai compagni di viaggio di Salvatore Sasa Piscitelli, uno dei 13 detenuti morto a Modena nella protesta dell’8 marzo. Entrambe le persone che riferiscono di essere state vittime di violenze hanno viaggiato da Modena ad Ascoli assieme a Piscitelli, il quarantenne per il quale i suoi compagni di teatro di Bollate, dove era recluso prima di Modena, avevano chiesto in una lettera resa pubblica a giugno di sapere la «verità sulla sua scomparsa». I pestaggi, stando a questa testimonianza, sarebbero proseguiti durante il viaggio verso Ascoli dove «Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa». «Come aprivi bocca per chiedere qualcosa - scrivono - prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce». Uno dei detenuti conferma che «Sasà stava malissimo e sul bus lo hanno picchiato, quando è arrivato non riusciva a camminare. Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato». La parte del racconto sui pestaggi viene negata da Gennarino De Fazio, segretario nazionale Uilpa della polizia penitenziaria, che invita a riflettere invece su altre possibili mancanze nella gestione della protesta. «Mi sento di escludere che ci sia stata violenza senza motivo. Parliamo di un istituto penitenziario incendiato e devastato, sono stati divelti cancelli e tentata un’evasione di massa. Immagino ci siano state delle perquisizioni accurate perché alcuni avevano armi rudimentali od oggetti da taglio e che quindi si sia dovuto ricorrere anche al denudamento di qualche detenuto. Teniamo presente che parliamo di un carcere col 152% di sovraffollamento, la capienza regolamentare è di 369 detenuti, ce n’erano 560 in quel momento. Solo questa segna il livello di accuratezza della gestione all’interno del penitenziario. In quel contesto, se c’è stata violenza la possiamo definire “legittima” perché serviva per ripristinare l’ordine, evitare evasioni ed eventuali soprusi di detenuti sui loro compagni». De Fazio sottolinea altri aspetti della vicenda: «Il fatto che i detenuti siano arrivati così facilmente alle infermerie degli istituti e si siano approvvigionati di metadone con così tanta facilità dimostra che qualcosa è mancato. Si aveva l’obbligo di rendere più sicure le infermerie? Non impedire la commissione di un reato, per il nostro codice penale, equivale a cagionarlo. Non è possibile che siano morte in questo modo 13 persone». Sui fatti di Modena la Procura ha aperto un’inchiesta complicata dalla morte improvvisa, l’11 luglio scorso, del procuratore capo Paolo Giovagnoli. Alcune famiglie dei reclusi hanno deciso di affidarsi ai legali che già assistevano i loro congiunti in questa indagine. Luca Sebastiani, avvocato di Hafedh Chouchane, racconta la difficoltà a comunicare il decesso ai parenti del suo assistito: «Se non fosse stato per me, la sua famiglia tunisina, mamma e fratelli, non avrebbe saputo della sua morte. Ho impiegato diversi giorni a rintracciarli attraverso il consolato. La sua morte mi ha sconvolto, era un ragazzo di 36 anni, sempre sorridente, ne ho un bel ricordo. Avrebbe beneficiato a breve della liberazione anticipata, avevo appena depositato l’istanza. Nel giro di un paio di settimane sarebbe uscito, pensava al futuro, a un lavoro. Non aveva un’indole violenta, mi è sembrato strano sia finito in episodi turbolenti. Era finito dentro per spaccio. Mi chiedo come sia stata danneggiata la farmacia interna: in che modo, era accessibile, era stata lasciata aperta? Quando si è sentito male, quando sono arrivati i soccorsi? I detenuti in overdose sono stati portati via senza essere curati? Mi auguro che si vada a fondo». Lorenzo Bergomi, legale di Ahmadi Arial, marocchino di 36 anni, riferisce «che a molti che si dice abbiano partecipato alla rivolta ora vengono negati i benefici, anche se non sono indagati e non hanno procedimenti disciplinari in corso. Uno di loro è stato riportato in carcere mentre stava scontando la pena ai domiciliari per il sospetto che abbia partecipato perché nella sua cella con altre 3 persone è stato trovato un coltello rudimentale e si trovava nella zona dove hanno sfondato il cancello. “Lo abbiamo fatto perchè bruciava tutto, mi ha assicurato, negando che il coltello fosse suo”». Un aspetto da chiarire è quello delle visite mediche, obbligatorio per autorizzare il trasferimento. In un’informativa inviata al Parlamento, l’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Basentini, scrive che gli agenti «riuscivano a fiaccare la resistenza aggressiva e violenta dei ribelli, immobilizzare i più facinorosi, condurli all’esterno e collocarli immediatamente sui mezzi di trasporto preventivamente predisposti». Non si fa cenno in questo passaggio ad alcuna visita medica.