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È una amara notizia che offre uno spaccato relativo al mondo del trattamento penitenziario. Lo psicologo Vito Michele Cornacchia, dalla Casa Circondariale di Lucca, rende noto a Il Dubbio delle sue dimissioni. Una decisione sofferta ma inevitabile, dettata da un contesto lavorativo che, a detta del professionista, si sarebbe progressivamente deteriorato sino a compromettere la dignità personale e la qualità del servizio.
Cornacchia, psicologo e psicoterapeuta con una carriera di quasi tre decenni alle spalle, ha denunciato una lunga serie di episodi che avrebbero reso insostenibile il proseguimento del suo incarico. In una lettera accorata indirizzata ai colleghi, il professionista ha raccontato come il suo ufficio sia stato sottratto e riconvertito senza preavviso, costringendolo a lavorare in spazi inadeguati, spesso «accampato» presso postazioni altrui e privato degli strumenti fondamentali per lo svolgimento delle sue attività.
I materiali accumulati in anni di lavoro sarebbero stati spostati in maniera arbitraria, un gesto che il professionista ha descritto come un «attacco alla sua professionalità». L’assenza di uno spazio dedicato avrebbe inciso profondamente sulla qualità dei colloqui con i detenuti, che necessitano di un ambiente protetto e riservato per esprimere il proprio disagio.
Le umiliazioni sarebbero state ulteriormente aggravate dall’imposizione di orari rigidi, che lo obbligavano a interrompere il lavoro alle 18, anche in situazioni critiche come colloqui con soggetti a rischio suicidario.
Il ruolo cruciale degli psicologi in carcere
Il caso di Cornacchia solleva interrogativi fondamentali sull’importanza del sostegno psicologico nelle carceri. Il trattamento rieducativo, pilastro del sistema penitenziario italiano secondo l’articolo 27 della Costituzione, si basa anche sull’intervento di figure specializzate come gli psicologi. Non solo valutano la probabilità che un soggetto possa mettere in pratica atti autolesivi o essere coinvolto in episodi di violenza, ma osservano e studiano il detenuto per formulare indicazioni relative al trattamento rieducativo, che viene integrato o modificato in base alle esigenze emergenti.
Dato che, secondo la norma giuridica, l’obiettivo della detenzione è il miglioramento delle problematiche che hanno esacerbato la devianza, lo psicologo stabilisce obiettivi precisi e personalizzati per ogni detenuto, condividendoli con loro stessi. Il sostegno psicologico si rivela quindi fondamentale in questo contesto, contribuendo anche al miglioramento della vita carceraria grazie all’esperienza nella gestione di gruppi, all’aggiornamento del personale carcerario sulle migliori pratiche di recupero e rieducazione e, soprattutto, alla tutela della salute dei detenuti. La riduzione degli spazi e delle risorse dedicate a questi professionisti rappresenta un grave passo indietro in un momento in cui l’allarme sui suicidi in carcere è ai massimi livelli. Quest’anno il nostro sistema penitenziario ha registrato un numero record di suicidi, mettendo in evidenza la necessità di incrementare i servizi di supporto psicologico.
Il caso Lucca: il grido di allarme del professionista
Le difficoltà incontrate da Cornacchia non sarebbero un caso isolato ma si inserirebbero in un quadro più ampio di criticità che riguardano tutte le carceri del nostro Paese. La gestione della Casa Circondariale di Lucca sembra riflettere un modello organizzativo orientato più alla gerarchizzazione e alla burocrazia che alla centralità del detenuto. Questo approccio minerebbe i principi di umanità e rieducazione che dovrebbero guidare l’operato penitenziario.
La decisione di sottrarre lo spazio dedicato allo psicologo per destinarlo alla registrazione dei nuovi giunti sarebbe emblematica di questa deriva. Come sottolineato da Cornacchia nella sua lettera al Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria Toscana, il sacrificio di uno spazio cruciale per il trattamento psicologico sarebbe stato giustificato da priorità organizzative che sembrerebbero ignorare le esigenze più profonde dei detenuti.
Le parole di Cornacchia sono un monito. «È la prima volta in tutta la mia carriera che rilevo un modus operandi caratterizzato da una così spiccata gerarchizzazione verticale, che sminuisce la figura dello psicologo fino a renderlo un “saltimbanco del trattamento”», ha scritto nella sua missiva. La sua denuncia pone l’accento sulla necessità di ripensare l’organizzazione dei servizi nelle carceri, ridando dignità e spazio alle figure professionali che vi operano.