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«Essere garantisti è un obbligo costituzionale, anche quando va poco di moda come oggi. Noi dobbiamo combattere questa battaglia culturale. Nel nome di Enzo Tortora e di quelli come lui, massacrati mediaticamente pur non avendo commesso alcun reato. Per la giustizia, contro il giustizialismo». Matteo Renzi sceglie i trent’anni dalla morte di Enzo Tortora per piantare la bandiera del garantismo. E non può essere un caso che il vessillo issato dall’ex premier dem sventoli nelle ore in cui Lega e 5Stelle siglano un contratto di governo decisamente poco garantista.E nelle stesse ore, dalla Valle d’Aosta, arriva anche la bordata di Silvio Berlusconi che chiude l’alleanza con Salvini perché, dice, «siamo proprio nella direzione più giustizialista possibile. Ho cominciato a vedere quello che viene chiamato il contratto definitivo - ha detto - e la preoccupazione è molto forte molto profonda perchè ci sono molti punti all’opposto del nostro contratto del centrodestra, a partire dalla giustizia». Il rapporto tra toghe e stampa, i magistrati innamorati delle proprie tesi, anche a costo della verità, gli aspiranti eroi, che sacrificano la speranza, e una battaglia che oggi la politica rischia di rendere vana. A 30 anni dalla scomparsa di Enzo Tortora e a due da quella di Marco Pannella, il dibattito sulla giustizia giusta è tutt’altro che esaurito. Rischiando di fare un balzo indietro, come se il sacrificio del conduttore televisivo, finito in carcere per colpa di accuse infondate e infamanti, fosse stato vano. Di questi temi si è discusso ieri nella Sala degli atti parlamentari del Senato, con il dibattito “Caso Tortora. Caso Italia”, organizzato dalla Fondazione internazionale per la giustizia “Enzo Tortora” e dall’Unione delle Camere penali italiane. Un dramma personale, ha evidenziato Gianfranco Spadaccia, già segretario del Partito radicale, diventato una grande questione politica e sociale. Tante, ieri, le persone che lo hanno ricordato.A partire da Matteo Renzi, che sulla sua pagina Facebook ha rievocato la vicenda. Tortora «era divenuto – suo malgrado – il simbolo di una giustizia vergognosa. Arrestato senza prove, condannato in primo grado con una sentenza ridicola e con i giornalisti che brindavano, esposto a un linciaggio mediatico e giudiziario senza precedenti. Poi finalmente riconosciuto come totalmente estraneo, totalmente innocente. Quando, da premier, ho firmato la legge sulla responsabilità civile dei magistrati ho pensato a lui, alla sua storia. Ma sono certo che non basti una legge – scrive Renzi –. Tra le tante battaglie culturali che ci aspettano – nell’Italia del 2018 – c’è anche quella per difendere la giustizia vera, dalle semplificazioni dei talk show, dei social, dei protagonismi. La giustizia non è mai giustizialismo. Non è mai show. Non è mai linciaggio mediatico. Essere garantisti è un obbligo costituzionale, anche quando va poco di moda come oggi. Noi dobbiamo combattere questa battaglia culturale. Nel nome di Enzo Tortora e di quelli come lui, massacrati mediaticamente pur non avendo commesso alcun reato. Per la giustizia, contro il giustizialismo».Giustizia, quella richiamata dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ricordando il debito di riconoscenza dell’Italia nei confronti di Marco Pannella, ha evidenziato la necessità di riformarla. Quanto accaduto a Tortora – questo l’allarme – potrebbe accadere di nuovo e a chiunque, specie in una società in cui la costruzione del mostro conosce strumenti nuovi e dove la presunzione d’innocenza è un diritto «non tutelato». Complici anche i giornalisti, il cui lavoro spesso «si intreccia con quello dei magistrati». A rappresentare la magistratura c’era Giovanni Salvi,procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, che ha sollevato dubbi sui magistrati del caso Tortora, a partire dalla capacità «di resistere alla tentazione di forzare la norma per raggiungere l’obiettivo che si ritiene giusto. È una grande tentazione del pubblico ministero». Una vicenda emblematica anche per i rapporti con i media: giusto mettere la gente nelle condizioni di capire, ma «bisogna evitare di costruire il circuito di retribuzione reciproca. A mio parere, al momento, questo è il rischio maggiore». Così ha messo in guardia i colleghi dalla possibilità di «ripetere degli errori». Come ad esempio, ascoltare pentiti che, dopo anni, cambiano versione, senza chiedersi come mai o avere la pretesa di presentarsi come “cavalieri solitari”, dando un’immagine «disperante» della lotta alla criminalità. Salvi ha poi teso la mano all’avvocatura, dicendo finito il tempo delle barricate, in passato motivate anche dall’aver scambiato «la difesa dell’autonomia con la difesa dei privilegi». Pericolo che ancora esiste, ma superabile col dialogo.Ma le responsabilità sono anche politiche. E le prospettive future tradiscono l’urgenza di rispolverare la questione giustizia per rimaneggiarla nel profondo. L’allarme lo lancia Beniamino Migliucci,presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, che ha criticato il contratto di governo di Lega e Cinque Stelle. «Ci sono parallelismi inquietanti con quel periodo, quando vigeva il processo accusatorio», una prova di come il caso Tortora rappresenti, in realtà, il caso Italia. «Sono circa mille all’anno i casi accertati di ingiusta detenzione», ha evidenziato, con una spesa di quasi 650 milioni dal 1992. Le soluzioni ci sarebbero: basterebbe applicare «il principio della presunzione di innocenza» e della raccolta della prova nel contraddittorio in dibattimento.La malattia del sistema giustizia è però un lascito di 35 anni di politica, secondo Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito radicale, che ha ricordato la vittoria nel 1987 del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, «tradita l’anno successivo con il voto sulla legge Vassalli, pochi giorni dopo la morte di Tortora. La politica – sostiene Bernardini – ebbe paura». Un’ignavia che oggi avrebbe condotto ad un programma di governo che preoccupa anche Gian Domenico Caiazza,avvocato, segretario della Fondazione “Enzo Tortora”, tanto da parlare di un momento anche peggiore rispetto a 30 anni fa, frutto del mancato rispetto delle regole del sistema da parte del sistema stesso. E quando accade, ha evidenziato, il risultato non può che essere una tragedia che rende debole la giustizia. «Noi vogliamo difenderne la credibilità, non parteggiamo per l’imputato contro l’accusatore – ha spiegato –. Il garante che noi invochiamo è il giudice, che deve essere indifferente alle ipotesi accusatorie e difensive». Da qui l’appello ad unire la forze con la magistratura, quella «che ha a cuore le coordinate fondamentali della Costituzione», dato sul quale misurarsi. Stessi timori condivisi dalla senatrice Emma Bonino, che ha paventato il rischio di un «populismo penale» fatto di più pene, più manette e più carceri. «Questo ci deve portare a reagire – ha concluso –. Dobbiamo aprire una stagione di resistenza».