PHOTO
ESTERNI ENTRATA CARCERE DI REBIBBIA ISTITUTO PENITENZIARIO ISTITUTI PENITENZIARI
“Porte girevoli” è il nome emblematico attribuito a uno dei filoni della maxi indagine condotta dai Carabinieri, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma che ha portato all’esecuzione di misure cautelari nei confronti di 4 persone, 2 ai domiciliari e 2 destinatari della misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio per la durata di un anno, perché accusati, a vario titolo, dei reati di false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all'autorità giudiziaria, falsità ideologica, corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente.
Al centro di questa complessa operazione, con un altro filone che ha interessato altre 28 persone per detenzione e associazione finalizzata al traffico di droga, vi è l’operato di un professionista del Servizio per le Dipendenze (Ser. D.) dell’Asl Roma 2, attivo all’interno del carcere di Rebibbia. Tra il 2018 e il 2019, secondo le accuse, avrebbe orchestrato un sistema illecito volto a facilitare, mediante certificazioni falsificate, l’accesso dei detenuti a misure alternative alla detenzione.
Questo sistema, se confermato, getterebbe un’ombra pesante sull’intero sistema carcerario, tradendo la fiducia di chi lavora per la riabilitazione e alimentando il senso di ingiustizia tra i detenuti che, nonostante condizioni di salute precarie, restano dietro le sbarre. Alcuni, purtroppo, non ce la fanno: le morti “naturali” per motivi di patologie poco curate, sono una ferita ancora aperta.
Come detto, al centro dell'indagine emerge la figura di uno psicologo, in servizio presso il Ser. D. di Rebibbia, che avrebbe creato un vero e proprio “sistema” illecito per il rilascio di false certificazioni. Le indagini, condotte tra il 2018 e il 2019, hanno evidenziato come il professionista, coadiuvato da alcuni collaboratori fidati, avrebbe orchestrato un meccanismo per favorire l'uscita dal carcere di alcuni detenuti attraverso l'attestazione di false condizioni di tossicodipendenza.
Il modus operandi era sofisticato e ben strutturato. Lo psicologo, secondo quanto emerso dalle indagini, non si limitava a certificare false condizioni di tossicodipendenza, ma arrivava perfino a costruire ex novo intere cartelle cliniche per detenuti che non erano mai stati presi in carico dal Ser. D. Le false attestazioni includevano la creazione di percorsi terapeutici mai effettuati e la certificazione di stati di tossicodipendenza per soggetti che, in alcuni casi, avevano dichiarato di non fare uso di sostanze stupefacenti da oltre un decennio.
IL COINVOLGIMENTO DI ALTRI OPERATORI
L'indagine ha rivelato il coinvolgimento di altri operatori del servizio, tra cui figure amministrative in posizioni sovraordinate. Particolarmente grave è emersa la posizione di alcuni collaboratori che, pur consapevoli delle attività illecite, non hanno fatto nulla per contrastarle. Il sistema avrebbe creato all'interno della struttura sanitaria del carcere un ambiente dove chi si opponeva a queste pratiche veniva di fatto emarginato fino a essere costretto ad allontanarsi dall'ufficio. Un aspetto particolarmente interessante dell'indagine riguarda il coinvolgimento di un'associazione di volontariato, utilizzata come schermo per ampliare il raggio d'azione del sistema. Attraverso questa organizzazione, lo psicologo sarebbe riuscito a controllare un numero maggiore di detenuti rispetto a quelli che avrebbe dovuto seguire secondo l'organizzazione del Ser. D., che assegnava i detenuti con cognomi inizianti per determinate lettere dell'alfabeto.
Le indagini hanno rivelato che dietro questo sistema si celavano diversi obiettivi. Da un lato, c'era un interesse economico diretto, con alcuni detenuti che pagavano per ottenere le false certificazioni. Dall'altro, emergeva la volontà di consolidare e ampliare il potere del Ser. D. all'interno del carcere, aumentando il numero di utenti del servizio e, conseguentemente, i finanziamenti da parte dell'Asl Roma 2.
L'inchiesta è partita dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia che ha rivelato l'esistenza di una vera e propria “compravendita” di certificati di tossicodipendenza all'interno del carcere. Le successive indagini, condotte congiuntamente dal Nucleo Investigativo Centrale del Corpo di Polizia Penitenziaria e dal Nucleo Investigativo dei Carabinieri del Gruppo di Frascati, avrebbero confermato quanto denunciato, portando alla luce un sistema molto più complesso e ramificato di quanto inizialmente ipotizzato.
Il sistema ha avuto ripercussioni significative sull'amministrazione della giustizia. I magistrati di sorveglianza, indotti in errore dalle false certificazioni, concedevano benefici penitenziari a soggetti che non ne avrebbero avuto diritto. Questo ha rappresentato non solo una violazione della legge, ma anche una beffa per i tanti detenuti che, pur versando in condizioni critiche reali, sono rimasti in carcere. La Procura ha scelto di concentrarsi sui casi più eclatanti di falsità ideologica, dove le certificazioni non erano semplicemente il risultato di forzature amministrative, ma rappresentavano vere e proprie attestazioni false di tossicodipendenza. Questa scelta è stata dettata dalla necessità di costruire un impianto accusatorio solido, considerando che la professione dello psicologo comporta naturalmente margini di discrezionalità tecnica.
CONSEGUENZE SUL SISTEMA PENITENZIARIO
L'inchiesta “Porte Girevoli” rischia di produrre effetti che vanno ben oltre le responsabilità individuali degli indagati. Il timore è che questo caso possa essere strumentalizzato da quelle forze politiche che da sempre si oppongono alle misure alternative alla detenzione, utilizzando questa vicenda come pretesto per sostenere una visione più restrittiva e punitiva del sistema penitenziario. Ma c'è di più. La storia insegna che scandali di questo tipo possono provocare un pericoloso “effetto pendolo”, portando la magistratura di sorveglianza ad assumere posizioni più rigide e conservative nella concessione delle misure alternative, anche nei casi di effettiva necessità sanitaria.
Un atteggiamento che rischierebbe di penalizzare proprio quei detenuti che realmente necessitano di cure e assistenza fuori dal carcere. Questo scenario è particolarmente preoccupante se si considera la situazione attuale del carcere di Rebibbia che, come molti istituti penitenziari italiani, deve fare i conti con un numero crescente di detenuti affetti da gravi patologie fisiche e mentali. Condizioni spesso incompatibili con la detenzione, che richiederebbero percorsi alternativi di cura e riabilitazione. Il rischio concreto è che questa inchiesta, cavalcandola, possa compromettere l'accesso alle misure alternative anche per chi ne ha realmente diritto, aggravando ulteriormente la già critica situazione sanitaria nelle carceri.
Va sottolineato come il sistema penitenziario italiano si trovi oggi di fronte a una duplice sfida: da un lato, la necessità di garantire la legalità e la correttezza delle procedure per l'accesso alle misure alternative; dall'altro, l'urgenza di dare risposte concrete ai crescenti bisogni di salute della popolazione carceraria. La vicenda di Rebibbia non dovrebbe portare a un irrigidimento generalizzato del sistema, ma piuttosto stimolare una riflessione più ampia sulla necessità di rafforzare i controlli mantenendo al contempo un approccio umano e costituzionalmente orientato alla detenzione.