Riportiamo di seguito la sintesi della relazione introduttiva che il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick ha pronunciato lo scorso 22 novembre a Regina Coeli in occasione del 55° Convegno nazionale del Seac - Coordinamento dei gruppi di volontariato penitenziari.

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Prendere la parola oggi mi fa sentire un po’ come tornare a casa, a quei luoghi frequentati trent’anni fa nel tentativo di promuovere una riforma del carcere. Non sempre ci siamo riusciti, e ancora oggi dobbiamo combattere per trasformarlo. Avevo preparato una traccia per parlare di volontariato in carcere e del tema del "carcere della Costituzione". Tuttavia, mi sono reso conto che questa traccia non funziona. 

Non possiamo parlare di un "carcere nella Costituzione", perché semplicemente non esiste. Non esiste un carcere che incarni pienamente i principi costituzionali. Il carcere della Costituzione è come un’isola che non c’è: un luogo ideale, un obiettivo ancora lontano, ma essenziale per affrontare seriamente questo problema. Dobbiamo piuttosto parlare del carcere di fronte alla Costituzione o fuori da essa. Recentemente, ho riflettuto su due aspetti che mi hanno colpito.

Da un lato, le notizie che giungono dalle carceri italiani, come Trapani o Santa Maria Capua Vetere, dove emergono a ripetizione vicende di violenze e abusi che calpestano la dignità umana. Dall’altro, il libro di Papa Francesco La speranza non delude mai, che traccia un cammino verso il Giubileo, non solo come evento religioso, ma come percorso di rinnovamento della fede e della speranza.

Il Papa ci ricorda che le carceri devono diventare "laboratori di speranza". Eppure, le nostre carceri sono ancora sovraffollate, colme di poveri e vittime di ingiustizie sistemiche. Come sottolinea il Papa, spesso il sistema penale preferisce imprigionare invece di affrontare le cause profonde della criminalità. Nonostante le parole e i tentativi di riforma, siamo ancora lontani dal garantire condizioni umane e dignitose.

Si continua a chiedere maggiore sicurezza, ma questa viene declinata come "sicurezza pubblica" nel senso tradizionale e non “sicurezza sociale”, senza un reale impegno per combattere esclusione e disuguaglianze. È più facile punire i deboli che affrontare i problemi strutturali. Un recente disegno di legge per intervenire sulla situazione drammatica del carcere, ad esempio, include disposizioni per sostenere la polizia penitenziaria, giustamente, ma introduce anche norme apparentemente scollegate, come la reintroduzione del peculato per distrazione al posto dell’abrogato delitto di abuso d’ufficio. Viene da chiedersi: ha davvero senso, in questo contesto, aggiungere un nuovo reato? È il momento di riflettere sulle vere priorità.

Il Papa ci invita a "tenere aperta la finestra della speranza", sia per i detenuti come singoli, sia per il sistema nel suo complesso. Ma la realtà che vediamo è diversa: sovraffollamento, carceri come luoghi di esclusione sociale, mancanza di progetti di reinserimento. Non basta costruire nuove strutture: occorre cambiare il modo in cui riempiamo quelle esistenti, mettendo al centro le relazioni, la dignità, l’affettività. Occorre considerare accanto alle relazioni le altre due componenti dell’identità della persona: quella temporale (il suo passato e il suo futuro); e quella spaziale (la sua privacy e il suo spazio vitale) emblematizzate nella “ora d’aria”.

Un esempio significativo è la recente sentenza della Corte costituzionale che riconosce il diritto all’affettività per i detenuti.

Questo diritto non riguarda solo i legami personali, ma tutte le relazioni che possono favorire il reinserimento sociale. Tuttavia, siamo ancora lontani da una reale trasformazione: il numero di suicidi in carcere cresce, e le risposte istituzionali restano insufficienti. Non possiamo dimenticare l’importanza del volontariato, che rappresenta quella "finestra" attraverso cui chi sta fuori può vedere e comprendere il carcere, e chi sta dentro può prepararsi al ritorno nella società.

Ricordo i miei primi passi da ministro, quando affrontai i conflitti tra volontariato e personale di custodia. Fu chiaro allora, come oggi, che senza volontari il carcere rischia di perdere quella dimensione umana indispensabile per la rieducazione e prima ancora per la sopravvivenza. Occorre promuovere la cultura in carcere: l’accesso al sapere, alla formazione, al patrimonio storico-artistico.

Non possiamo accettare logiche che negano questi diritti, come accaduto in un caso che ho seguito come avvocato alla Corte di Strasburgo. Un detenuto si era visto negare la detenzione domiciliare non solo per mancanza dei presupposti, ma con la motivazione aggiuntiva che, avendo conseguito una laurea e un master, era diventato "più pericoloso".

Una logica aberrante, che rischia di scoraggiare ogni percorso di crescita. Il Papa ci ricorda che non c’è giustizia senza misericordia. La solidarietà, l’uguaglianza e la valorizzazione della diversità sono i principi su cui deve fondarsi il volontariato. Non si tratta solo di tamponare le carenze del sistema, ma di mediare, proporre e costruire percorsi concreti di riforma. Tuttavia, non possiamo limitarci a belle parole: abbiamo sprecato troppe occasioni, come gli “Stati generali” del carcere, che si sono persi in discussioni accademiche senza portare a veri cambiamenti.

Dobbiamo trovare un equilibrio tra sicurezza, prevenzione e rieducazione. Eliminare gli automatismi legislativi che ostacolano il trattamento personalizzato. Imparare dalle lezioni della pandemia, che ha messo in luce quanto sia fragile il sistema attuale. Non basta aumentare lo spazio fisico delle carceri: serve costruire un tessuto relazionale che promuova dignità e speranza.

In conclusione, il carcere deve essere un luogo dove si coltiva il futuro, non un limbo dove si soffoca la vita. La sfida è enorme, ma non possiamo permetterci di perdere la speranza. Il Giubileo può essere un’occasione per ripensare il nostro sistema penitenziario, partendo dai principi della Costituzione e dall’appello del Papa: fare del carcere un vero "laboratorio di speranza".