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«Il linguaggio giuridico oscuro è una forma sottile di esercizio del potere», ha esordito Gianrico Carofiglio, ex magistrato e scrittore alla tavola rotonda sul «linguaggio dell’avvocato». Il dialogo sul lessico giuridico - accreditato dal Consiglio Nazionale Forense e svoltosi all’interno del Convegno nazionale di Agi ( Associazione giuslavoristi italiani) di Bologna - ha visto confrontarsi magistrati, avvocati e giornalisti: il primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone; il direttore del fattoquotidiano. it, Peter Gomez; la consigliera Cnf Celestina Tinelli; il presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, Giovanni Rossi e la professoressa di Linguistica Stefania Cavagnoli, coordinati dall’avvocata Sandra Dorelli. Che il linguaggio giuridico sia inaccessibile per il fruitore generalista non è un mistero per gli operatori del diritto e in particolare per gli avvocati. Ma, in anni in cui il rito processuale è sempre più mediatizzato, questo provoca un cortocircuito tra soggetti della giurisdizione, mass media e cittadini: i primi non riescono a farsi capire, i secondi faticano a comunicare concetti tecnici, i terzi ricevono una informazione poco accurata.
«Rendere chiaro il linguaggio giuridico è un nostro compito, perchè ciò che è oscuro genera diffidenza, come diceva Norberto Bobbio. Questo noi operatori del diritto non possiamo permettercelo», ha premesso l’avvocata Dorelli, sottolineando l’importanza del diritto del cittadino a comprendere gli atti giuridici “considerato che le sentenze vengono pronunciate nel nome del popolo italiano”.
Carofiglio ha definito «sacerdotale» la lingua del diritto, e la scelta di un lessico oscuro viene fatta per tre ragioni: pigrizia del gergo, «perchè se non si parla in un certo modo non si viene riconosciuto come parte della corporazione» ; narcisismo, «perchè scegliendo parole che gli altri non capiscono si lancia un messaggio chiaro: io sono meglio di voi» ; e infine per esercitare un potere, «il linguaggio giuridico è fatto per escludere gli esterni agli addetti ai lavori». Lo scrittore ha poi elencato una serie di tecniche di redazione degli atti: le frasi leggibili non dovrebbero avere più di 25 parole; evitare le parole non necessarie, gli avverbi, gli pseudotecnicismi; preferire la forma verbale attiva a quella passiva. Norme, queste, che dovrebbero guidare il lavoro di avvocati e magistrati: «Da ex pm, uso l’esempio del capo di imputazione, che spesso ho fatto riscrivere più volte ai miei uditori: dovrebbe essere l’atto più comprensibile di tutti, perchè il cittadino deve capire di cosa è accusato per potersi preparare a difendere».
Per tentare di mettere ordine e chiarezza, il Cnf e la Corte di Cassazione hanno stipulato dei protocolli per la redazione degli atti: «Il problema di comprensione è anche interno alla giurisdizione, tra magistrati e avvocati. L’obiettivo è stato di fissare dei canoni reciproci di chiarezza delle tesi, con regole di stesura e di lunghezza. Il sistema funziona bene, anche se si tratta di norme di carattere consensuale: meno del 10% degli atti si discosta da queste linee guida», ha spiegato il presidente della Cassazione, Giovanni Mammone. «L’avvocatura da anni si occupa di analizzare il problema della chiara redazione degli atti, con osservatori e linee guida degli Ordini con le singole Corti d’Appello, oltre che con i protocolli con il Csm», ha confermato la consigliera Cnf, Celestina Tinelli. La consigliera ha ricordato come sia complesso stendere questo tipo di protocolli, perchè spesso mal si adattano ad ogni branca del diritto, ma che è la direzione in cui ineluttabilmente muoversi, in ottica di collaborazione con la magistratura e nell’interesse di tutti gli operatori e i fruitori del diritto. Quanto alla comunicazione esterna, Mammone ha sottolineato come permangano difficoltà di rendere intellegibili le sentenze all’esterno della giurisdizione, in particolare alla stampa: «Per questo gli uffici giudiziari si stanno dotando di uffici stampa, per evitare che sentenze che riguardano casi di interesse mediatico vengano completamente fraintese nel loro contenuto, a partire da locuzioni tipicamente legate al lessico giuridico e non comprensibili al lettore estraneo». Una problematica questa, che ha a che fare con la «comprensione del contenuto» ma che condiziona in modo sostanziale il diritto all’informazione del cittadino.