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Mario Gozzini era uno spirito cattolico inquieto e fermo, apparteneva a quella genia di cattolici che prima della caduta del fascismo e nell’immediato dopoguerra pensavano e si interrogavano su quale Paese volessero costruire, animati com’erano da spirito cristiano, impegnati nell’agire sociale, e pure coscienti che la politica, l’ordinamento statuale, le leggi scritte non fossero tutto quel che si potesse fare, e fossero anche poca cosa se non erano pervase dalla passione per l’umano, dal riscatto degli “ultimi”. Così, gruppi di giovani cattolici che agivano in autonomia, partendo proprio da un’esigenza di rinnovamento religioso e sociale che il partito dei cattolici, la Democrazia cristiana, pareva trascurare, negli anni Cinquanta avevano praterie davanti per un lavoro culturale. È tutto un interrogarsi e prendere le distanze dal misticismo, tutto un distinguere tra esistenzialismo ateo e religioso, tutto un ragionare sul concetto di civiltà cristiana. Era tutto un mondo quello, di forte impronta antifascista, che guardava al movimento operaio, al Partito comunista. Era, in sostanza, il confronto tra cristianesimo e marxismo. Parliamo di uomini con uno spessore culturale forte, che ebbero un peso enorme nella Costituente.
È da questo “spirito” che nasce la legge Gozzini.
La legge Gozzini non era «l’umanizzazione del carcere» – un concetto orrendo –, non faceva che dare valore e attuazione all’articolo 27 della Costituzione, laddove dice che la pena è rieducativa, anzi di preciso recita così: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». E così, la Gozzini, che fu votata da tutto il Parlamento meno quelle teste di pietra del Msi, che allora volevano l’introduzione della pena di morte ( la volevano sempre, per la verità), intervenne su permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la libertà condizionale, la liberazione anticipata. Insomma, allentò la presa. Erano tempi durissimi per le carceri, con una massa di detenuti politici ( che tali non furono mai considerati) e di detenuti politicizzatisi, attraverso le rivolte degli anni Sessanta e Settanta e il lavoro della sinistra extraparlamentare prima e dei Nap dopo, e condizioni di vita sempre più restrittive, a fronte di una popolazione detenuta che aumentava. Si evadeva, si progettavano rivolte, si sparava per le strade. Persino agli architetti delle carceri sparavano. Eppure, invece di puntare a una maggiore militarizzazione e con una opinione pubblica sgomenta e disponibile forse a un discorso ancora più repressivo, Gozzini riuscì a ribaltare il punto di vista. Bisognava allentare la presa, non c’era altro modo per uscire da quella spirale viziosa, più repressione più violenza più repressione.
Uno dei primi luoghi dove venne applicata la legge fu il carcere di Porto Azzurro. Quando nel 1987 scoppiò una rivolta e l’Italia restò per giorni con il fiato sospeso – perché c’erano ventotto ostaggi, tra cui il direttore, convinto “gozziniano”, nelle mani di sei ergastolani – Gozzini non si tirò indietro, e si schierò per la trattativa a oltranza, per il dialogo, contro chi voleva subito l’intervento delle forze speciali, anche a costo di lasciare dietro una scia di sangue. Ebbe ragione.
A memoria d’uomo non si ricorda una visita in carcere di un presidente del Consiglio, accompagnato dal ministro di Giustizia – accolti dai detenuti al grido di “Draghi, Draghi, amnistia, indulto”. È successo ai papi – nelle loro visite pastorali natalizie a Regina Coeli o a San Vittore.
E a memoria d’uomo non si ricorda una visita in carcere di un presidente del Consiglio, accompagnato dal suo ministro della Giustizia, dopo un pestaggio spietato e disumano – in cui le parole pronunciate sono state: «Non può esserci giustizia dove c'è abuso. E non può esserci rieducazione dove c'è sopruso. Il Governo non ha intenzione di dimenticare. Le indagini in corso stabiliranno le responsabilità individuali. Ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato». Parole riecheggiate in quelle del ministro Marta Cartabia: «È l’occasione per far voltare pagina al mondo del carcere. Bisogna correggere la misura penale incentrata solo sul carcere».
È questo il “filo rosso” della riforma presentata da Cartabia. Da un lato, con un'ampia casistica di pene alternative alla detenzione. Si potrà intervenire sulla detenzione domiciliare: per le pene fino a 4 anni; oppure, sulla semilibertà; oppure, per i lavori utili: per le pene fino a tre anni. Dall'altro rimettere mano all'ordinamento penitenziario, la legge Gozzini n. 663 del 1986, e che ha progressivamente perso la sua “spinta propulsiva”.
Il carcere non può essere “vendicativo”. È un principio che Cartabia ha ripetuto più volte, estesamente. Una, a esempio, è stata la presentazione a febbraio, del libro “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione”, scritto insieme a Adolfo Ceretti, professore di Criminologia all'Università di Milano- Bicocca e coordinatore scientifico dell'Ufficio di mediazione penale di Milano – in cui si riattraversa l’insegnamento del cardinal Martini sulla giustizia, sul senso della pena e sulle carceri. Martini, peraltro, ricordano gli autori, iniziò la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio San Vittore. Martini, negli anni Novanta, ragionava su una giustizia non solo punitiva ma riparativa, capace di rimarginare le ferite delle vittime e della società, una “giustizia dell’incontro”. Una giustizia che vedeva nel riconoscimento della colpa e non nella crudeltà della vendetta la via per ricomporre i conflitti di società ferite, come avvenuto in Sudafrica.
Un’altra, sempre a esempio, è la lectio magistralis tenuta all’università di Roma tre, a Roma, nel gennaio dello scorso anno, quando Cartabia era presidente della Corte costituzionale: “Una parola di giustizia. Le Eumenidi dalla maledizione al logos”. Qui, Cartabia, rileggendo la tragedia di Eschilo, ragiona sul passaggio dalla antica giustizia vendicativa, rappresentata dalle Erinni, al nuovo ordine fondato grazie a Atena, dea della sapienza, «su un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre», cioè il processo davanti a un tribunale. Il ragionare prende il posto dell’istinto vendicativo, dell’immutabilità insensata di una giustizia- vendetta che esige solo il versamento di altro sangue, la generazione di altro dolore, la proliferazione di altro male. Ogni controversia giurisdizionale reca sempre in sé una dimensione collettiva, che trascende la singola vicenda individuale. È qui che Cartabia ricorda l’esperienza del Sudafrica dopo l’apartheid – l’incontro tra le vittime e i loro carnefici d’un tempo. Una giustizia che guarda in avanti e allude alla possibilità di una rinascita: senza cancellare nulla – anzi ri- cordando tutto – apre una prospettiva nuova per la singola esistenza individuale e per l’intera comunità.
Forse davvero è il momento per far voltare pagina al mondo del carcere.