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Naturalmente i magistrati non corrono alle elezioni. Non sono avversari politici in senso senso stretto: la loro presenza nelle liste è limitata a un paio di casi, peraltro connotati da spiccata “moderazione ideologica”: Cosimo Ferri ( in corsa col Pd) e Giusi Bartolozzi ( schierata da Forza Italia). Eppure le valutazioni delle ( altre) toghe restano temutissime. Quasi quanto quelle di Salvini sugli immigrati o di Grillo sul mancato taglio dei vitalizi.
Ne sono una plastica dimostrazione le esitazioni dell’esecutivo tuttora in carica, a guida Gentiloni e dunque Pd, sulla riforma penitenziaria: a rileggere con attenzione i lavori parlamentari, diversi indizi lasciano supporre che a frenare il governo siano più di tutto le valutazioni espresse dai pm nelle audizioni in commissione Giustizia. Il motivo è semplice: potrebbero essere impugnate dai partiti più aspramente contrari alla riforma, sempre la Lega di Salvini e i cinquestelle di Grillo, per tuonare contro i dem di Renzi e dello stesso Gentiloni. È vero che difficilmente i magistrati si metterebbero a urlare proclami in tv. Ma alcuni di loro, due in particolare, hanno parlato in atti ufficiali, ovvero nelle audizioni svolte appunto nelle commissioni in vista del parere poi consegnato da queste sui decreti delegati. I due nomi da cui sono arrivate le considerazioni più dure sulla riforma voluta dal guardasigilli Andrea Orlando sono il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita e il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho. Due toghe dal profilo specchiatissimo e, come suggeriscono le rispettive cariche, dall’elevato grado di professionalità. Se de Raho occupa un ruolo dal peso forse maggiore rispetto a quello di ogni altro pubblico ministero, Ardita gode di una straordinaria considerazione, tra i colleghi e non solo, per l’alta percentuale di successo delle sue indagini. Al che va aggiunta la sua candidatura per il prossimo Csm nelle file della corrente più giustizialista dell’Anm, Autonomia & indipendenza, il gruppo di Piercamillo Davigo. In caso di elezione, Ardita diventerebbe un temibilissimo spauracchio anche per il governo (probabilmente fragile) che uscirà dalle Politiche del 4 marzo: un censore scomodo anche in vista di un non irrealistico ritorno alle urne. Si tratta di due posizioni piuttosto convergenti, che per la loro durezza e il loro peso potrebbero condizionare molto il governo nelle decisioni delle prossime ore. È vero che le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno espresso parere favorevole sul provvedimento – peraltro privo di contenuti rimasti congelati in altri decreti, mai emanati in via preliminare dal Consiglio dei ministri, che avrebbero dovuto disciplinare temi decisivi come l’affettività e il lavoro. Ma è anche vero che, in particolare nel caso di Palazzo Madama, tale via libera è arrivato sub judice, cioè solo all’eventuale verificarsi di alcune condizioni. Segnatamente rispetto a un improbabilissimo accesso ai benefici per i detenuti al 41 bis. L’esecutivo ha la possibilità di riemanare in via definitiva il decreto senza accogliere le richieste di modifica avanzate dal Senato. Ma è evidente che se lo facesse si esporrebbe a un rischio ancora maggiore di strumentalizzazioni violente, proprio in virtù dei “caveat” suggeriti al Parlamento da de Raho e Ardita. Il procuratore Antimafia ha avanzato pubblicamente una richiesta: lasciare nelle nuove norme sull’ordinamento penitenziario la clausola che assegna allo stesso vertice della Dna il potere di negare l’avvenuto superamento delle condizioni che impongono il regime del 41 bis per un detenuto. Ipotesi finora non accolta, e che rischia di tornare, di nuovo, come argomento polemico in campagna elettorale. Ardita ha espresso a sua volta critiche severissime sul superamento delle preclusioni che attualmente impediscono l’accesso ai benefici, sempre per chi risponde di reati relativi alla criminalità organizzata. Inoltre, il procuratore aggiunto di Catania si è detto convinto, in una mail diffusa tra tutti i colleghi, che i «magistrati debbano mobilitarsi». Una chiamata che Ardita ritiene indispensabile «per fare sì che l’effettività della pena nel nostro Paese non scenda sotto il limite del ridicolo». Oltre che di obiezioni riguardati il generale fluidificarsi dell’accesso ai benefici, lo stesso magistrato siciliano si concentra sul rischio che le nuove norme consentano, almeno in via ipotetica, un’estensione di tali opportunità anche a chi è in regime di 41 bis. Potrebbe avvenire, sostiene, a causa del neointrodotto articolo 4 ter, in virtù del quale un mafioso che avesse scontato la pena relativa al 416 bis potrebbe ottenere favori trattamentali qualora la condanna per reati minori (per esempio rapine) non fosse stata connotata dall’aggravante del metodo mafioso. Obiezioni che hanno spinto non a caso la commissione Giustizia del Senato a chiedere modifiche sul punto. È evidente che l’argomento “favori ai boss” è il più facilmente sventolabile in campagna elettorale. E una volta che i pm hanno messo a punto la trama concettuale, non sarebbe difficile vederla agitata dai partiti. Eventualità che, di certo, non spinge il governo a un ultimo atto di coraggio.