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Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. Così recita il codice penale all’articolo 40, e c’è da chiedersi se questa modalità specifica di imputazione, che si richiama a un principio di responsabilità morale, possa riguardare solo il cittadino, e non anche e soprattutto lo Stato. Non impedire una catena di suicidi in un luogo, il carcere, dove la vita dei singoli è sotto il controllo totalitario dello Stato, non equivale forse a esserne corresponsabili?
«Lo sconto di pena no - dice il ministro Carlo Nordio, bocciando l’indultino proposto dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti -, sarebbe una resa». Mi chiedo che cosa siano invece cinquantadue detenuti impiccati o soffocati nei primi sei mesi dell’anno, diecimila detenuti oltre la capienza massima, quattromila risarcimenti per trattamenti inumani certificati dai magistrati di sorveglianza. Con quale coraggio un governo inerte su questo tema continua a gettare la palla in tribuna, annunciando soluzioni impraticabili o numericamente irrilevanti? È il caso dei mille nuovi agenti assoldati dal decreto del guardasigilli. Sono appena un sesto dell’intera quota di personale mancante rispetto alla dotazione della pianta organica del Ministero. E arriveranno solo tra il 2025 e il 2026. Quale impatto possono avere su un’emergenza che deflagra nell’inferno agostano di istituti di pena sovraffollati e invivibili, infettati dalle cimici che di notte ti mordono la pelle come una gruviera, dove perfino una doccia è un diritto non garantito, dove le ferie fermano scuola e ogni altra attività, e una moltitudine caotica scopre la sua disperata solitudine?
Bisogna avere il coraggio di uscire dall’ipocrisia e denunciare che cosa rappresenta il carcere per la nostra società e per la nostra politica: fino a ieri era il luogo dove confinare il male del mondo per rimuoverlo e non vederlo più, oggi si è aggiunto un cattivismo propagandistico a cui una quota rilevante ed egemone di questa maggioranza non intende rinunciare. Nessuno però pensi di professare il garantismo ritagliandolo a là carte, poiché quest’inerzia, e i suoi funesti effetti, da soli vanificano ogni altra riforma e ogni sbandierata buona intenzione.
I suicidi delle carceri, venti volte più frequenti di quanto accade nella popolazione libera, sono, per paradosso, la soluzione di un problema. Per convincercene bisogna entrare nella storia dei protagonisti, quelle vittime di cui si dà solo una connotazione aritmetica: il cinquantaduesimo detenuto che si toglie la vita si chiama Fedi, ha vent’anni, a dodici è giunto dalla Tunisia nascosto nella cisterna di un camion che trasportava olio sbarcato da una nave. Ha passato la sua adolescenza da solo in un paese straniero, scappando da una comunità all’altra, tra Lecce, Trieste e Firenze. E in mezzo alle fughe ha incontrato la strada e il carcere minorile. Il traffico degli stupefacenti ne ha fatto uno schiavo, persuadendolo a vivere di reati. Appena maggiorenne, ha rubato lo smartphone a un turista sardo, per poi chiederne il riscatto. Se l’è cavata con una pena a un anno e quattro mesi, finita di scontare nell’ottobre scorso. Ma nel frattempo sono andate in giudicato altre condanne per furti compiuti da minorenne. Sarebbe uscito a novembre del 2025. L’altro ieri ha approfittato del colloquio del compagno di cella con i familiari, si è barricato tra le sue sbarre, bloccandone la serratura, e si è impiccato con il lenzuolo. Fedi era tossocodipendente ma non incapace di intendere e di volere, dice l’avvocato Ivan Esposito, che lo ha difeso con patrocinio a spese dello Stato. Si è tolto la vita quando ha capito che trovare una via d’uscita sarebbe stato impossibile. Nessuna comunità avrebbe accolto un maggiorenne irregolare. Per lui, e per lo Stato allo stesso modo, a fine pena non c’era che la strada e la prospettiva di un ritorno al carcere.
Ecco la «soluzione». Tra un reinserimento fallito e un reimpatrio proibitivo, il suicidio a suo modo fa coesistere la disperazione individuale con la rimozione collettiva. Il giovane tunisino è come il signor K del romanzo kafkiano, che agevola il compito ai suoi carnefici infliggendosi la coltellata fatale. Lui non vuole più soffrire, noi non vogliamo più vederlo. Quell’altrove esistenziale che è il carcere in Italia, separato dal mondo dalla sua invivibilità immobile e dallo stigma collettivo, dove si giunge alla fine di vite condotte sul bordo del precipizio, suggella l’alleanza a perdere tra il vittimismo e il cattivismo. L’ipocrisia del dibattito pubblico è la sua giusta colonna sonora. E il guardasigilli può dire, senza timore di cadere nel tragico, che «uno sconto di pena sarebbe una resa dello Stato».
La storia di Fedi dimostra invece che aumentare gli agenti penitenziari, riempire gli istituti di pena di psicologi, e perfino decongestionarli con pure auspicabili sconti di pena, non basterà a risolvere la piaga dei suicidi. Che ci impone piuttosto di rimettere in discussione l’idea stessa del carcere in una società pacificata e sempre più gelosa delle libertà individuali. Assodato che non è un deterrente, come la storia di Fedi ampiamente dimostra, il carcere è ancora un risarcimento sociale, come lascia intendere Carlo Nordio quando parla di funzione retributiva della pena? O piuttosto è un automatismo burocratico? Quello che fa dire a Matteo Concetti, 23 anni, bipolare, arrestato perché, svolgendo la pena alternativa in una pizzeria, aveva sforato sull’orario di rientro a casa: «Mamma, se mi riportano in isolamento, mi ammazzo». Oppure il carcere può essere solo un rimedio estremo, a protezione dell’incolumità pubblica, dove si persegue davvero quel recupero che estingue il male, anziché trascinarlo tra le generazioni? Se partissimo da quest’ultima domanda, avremmo fatto un passo avanti per disarmare vittime e carnefici. È troppo chiedere a un ministro illuminato un atto di coraggio?