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Modena rivolta al carcere
Modena vuol dire anche impegno. Dei volontari e dei medici. Il carcere teatro della rivolta di marzo finita in tragedia, è anche un modello di integrazione fra supporto territoriale psichiatrico e sistema trattamentale. «Il segno lasciato anche tra noi medici per quanto avvenuto fra l’ 8 e il 9 marzo non è lieve, innanzitutto per i colleghi che sono stati tenuti sotto sequestro», spiega Fabrizio Starace, direttore del dipartimento Salute mentale nell’Ausl emiliana. Nella casa circondariale Sant’Anna di Modena sono morti, per quei fatti, 9 detenuti. Ma è persino più impegnativo dare un senso alla tragedia se si considera il livello dell’attività svolta, anche nel penitenziario, dalla struttura guidata da Starace. Che è figura chiave, nel panorama della psichiatria italiana attenta al rilievo sociale dei trattamenti. Non a caso presiede la Società italiana di epidemiologia psichiatrica ed è stato chiamato a far parte della task force di Colao. «A Modena abbiamo agito con grande scrupolo nel predisporre innanzitutto uno screening permanente per individuare tra i nuovi giunti, attraverso la verifica di uno psicologo, i detenuti esposti a elevato rischio di atti autolesionistici. Con la disponibilità nella direzione», racconta Starace, «è stata attivata una sezione definita “I care”, in cui circa 30 reclusi con quel profilo si trovano in celle vicinissime all’infermeria. In tal modo è possibile visitarli senza il bisogno della richiesta formale. Nell’ultimo anno sulle oltre 1.300 persone che anche solo per un giorno sono state detenute, ne abbiamo sottoposte 350 a visita psichiatrica». Nella sezione “I care” passano non solo i reclusi che mostrano fin dall’inizio vulnerabilità, «ma anche chi diventa più esposto in seguito, per esempio, a notizie che riguardano i familiari o la propria vicenda giudiziaria». Ricorda ancora lo psichiatra che dirige il dipartimento modenese: «L’attività sulla salute mentale in carcere, nel nostro caso, è svolta da due psichiatri stabilmente distaccati preso il penitenziario. Nel 2019 hanno effettuato oltre 1330 visite. Vuol dire che ciascuno dei detenuti sottoposti almeno una volta a controllo da parte dei due colleghi è stato visto in media 4 volte in un anno, ma che ovviamente per i casi meritevoli di maggiore attenzione è intervenuta una vigilanza continua».
Ma forse a rendere il caso particolarmente virtuoso, e ancora più ardua la comprensione della tragedia, è soprattutto il progetto dei “Peer supporters”, «che coinvolge 13 reclusi selezionati tra diversi aspiranti e ritenuti in grado di assumere una funzione di sostegno per i compagni di detenzione». Detenuti che, prima ancora di uscire, diventano “assistenti” nell’attività psichiatrica dietro le sbarre: «Hanno l’esplicito compito di assumere un ruolo di supporto per gli altri detenuti e allertare i medici qualora scorgano situazioni di allarme, dal punto di vista del disagio mentale». Un ribaltamento di ruoli che si traduce, per i 13 detenuti, in segnalazioni positive al giudice di sorveglianza, e che a breve conoscerà una rimodulazione “esterna” per chi è in semilibertà. Un contesto di impegno, da parte dell’Ausl di Modena, di fronte al quale il direttore della Salute mentale attribuisce la tragedia di marzo «a una concomitanza di fattori tra i quali uno di particolare fatalità: le overdosi da metadone sono state mortali perché chi aveva sofferto di dipendenza prima di entrare in carcere, aveva nel frattempo ridotto la propria tolleranza alle sostanze». Ma anche di fronte all’orrore di quelle 9 morti, i servizi sanitari di qualità come quelli assicurati nello stesso carcere di Modena non possono essere dimenticati.