Fu proprio Giovanni Falcone, durante un convegno nazionale di diritto e procedura penale nel ’ 91, a parlare della necessità dei pentiti come importante strumento per la lotta alla mafia, ma tenendo bene a precisare che «ovviamente non costituiscono mezzo di prova unico e indispensabile». Sappiamo che Falcone temeva i falsi pentiti che spacciano fandonie e notizie artefatte per ragioni personali o per depistare le indagini. Il caso eclatante fu quello del pentito Giuseppe Pellegritti, che accusò indirettamente Giulio Andreotti come mandante di un omicidio politico. «Era molto preoccupato», aveva ricordato l’ex giudice D’Ambrosio che all’epoca ricevette una visita di Falcone a Roma. «Mi disse: “Pellegritti mi ha teso una trappola, ha detto cose che non sono vere. È una falsa pista che non porta da nessuna parte. Ma se non la seguo mi diranno subito: Perché non vuoi incriminare Lima?”». Falcone non può correre rischi, il maxi- processo è in appello e se un rimestatore di professione come Pellegritti dovesse farla franca l’intero impianto accusatorio comincerebbe a sgretolarsi. Il giudice si muove rapidamente e parte una richiesta istruttoria dalla Procura di Palermo. Negli atti depositati, Falcone spiega che il pentito non sta dicendo la verità. Il giorno dopo, Pellegritti viene interrogato dalla Corte d’Assise d’Appello nel carcere di Alessandria, dove conferma il teorema su Lima mandante dell’omicidio Mattarella. Se fosse vero, sarebbe un colpo, da cui difficilmente il Presidente del Consiglio Andreotti potrebbe riprendersi. Il 4 ottobre, Falcone firma un mandato di cattura per “calunnia continuata” contro Pellegritti. È una reazione dura ma necessaria, che in poco tempo spinge il pentito a ritrattare le sue dichiarazioni, scaricando ogni responsabilità sul suo compagno di cella: «Sono rimasto vittima della mia megalomania – confessa – mi sono lasciato indurre da Angelo Izzo a riferire dati dei quali non ero assolutamente a conoscenza». Falcone, quindi, inquisisce anche Izzo, il “boia del Circeo”, condannato all’ergastolo per stupro e omicidio. Angelo Izzo è un altro che sostiene di conoscere tutti i misteri italiani e in quel periodo accusò l’ex Nar Valerio Fioravanti di essere stato l’esecutore dell’omicidio Mattarella. Purtroppo Angelo Izzo negli anni a seguire verrà preso in considerazione da altri magistrati per le sue rivelazioni, che puntualmente finirono per dimostrarsi delle vere e proprie bufale.

RICORDI A RATE DEI PENTITI SU TUTTI I MISTERI D’ITALIA

Accade che nel corso del tempo ci siano pentiti, che ricordino improvvisamente degli eventi; a volte gli eventi si incastrano, forse casualmente, con i teoremi giudiziari del momento. L’ultimo atto del pentitismo con i ricordi a rate e casualmente corrispondenti alle narrative vigenti c’è stato venerdì scorso. Il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo ha parlato per quattro ore davanti ai giudici di Caltanissetta per il processo a carico dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, che devono rispondere di calunnia aggravata, di aver avuto, in sostanza, un ruolo nella manipolazione e nella creazione del falso pentito Vincenzo Scarantino. Di Carlo in realtà ha più o meno ribadito ciò che aveva raccontato nel 2014 durante il famoso processo sulla presunta trattativa Stato- mafia, dove si era ricordato di un particolare che mai aveva rivelato e cioè di aver ricevuto, mentre era detenuto, un emissario dei servizi segreti che lo mise a conoscenza di un piano per allontanare da Palermo Giovanni Falcone, quando era ancora all’ufficio istruzione. In compagnia dello spione ci sarebbe stata un’altra persona, che Di Carlo ha assicurato di aver successivamente riconosciuto in foto come Arnaldo La Barbera, lo stesso funzionario accusato del depistaggio. Solo che Di Carlo si è pentito nel 1996 e solo nel 2014 si era ricordato di questo particolare. La peculiarità di questo pentito è che sembra di ricordare molte cose soprattutto riguardanti il periodo di quando smise di far parte di Cosa Nostra.

Affiliato nel maggio 1961 alla famiglia di Altofonte, svolge per quindici anni la mansione di soldato semplice, nel ’ 70 diventa poi consigliere e cinque anni dopo capo famiglia. Ma rimane a far parte di Cosa Nostra fino all’ 82. Ce lo ritroviamo poi in Inghilterra dove verrà condannato nel 1987 insieme a cinque complici per aver importato eroina e cannabis per un valore di 78 milioni di sterline pari a 180 miliardi di lire. Condannato duramente, Di Carlo rimase detenuto nel carcere di massima sicurezza di Full Sutton fino a quando chiese di essere rimpatriato, avvalendosi dell'accordo internazionale che consente ai detenuti di scontare le pene nei Paesi d' origine. La sua intenzione di collaborare con la giustizia nel 1996 ha fatto sì che venisse chiesta per lui l'applicazione del trattato di Strasburgo, che prevede appunto la possibilità di continuare a scontare la pena nel paese d' origine. Sembra però un pentito che è a conoscenza di tutti i misteri italiani. Dalla morte del banchiere Calvi, passando per la strage di Bologna fino a quella di Ustica. Ma non solo, parliamo del pentito che rispolverò la storia di Bernardo Mattarella, padre del capo dello Stato Sergio, dipinto come uomo d’onore della vecchia Cosa nostra della provincia di Trapani. Aveva ribadito storie già dette due decenni fa, ma le aveva ulteriormente specificate con i ricordi che gli erano nel frattempo venuti a galla. «Fandonie di un uomo che non sa nulla», aveva tuonato il legale dei Mattarella.

C’è il caso del pentito Vincenzo Calcara, sconfessato da diversi tribunali. Lui si definisce il pentito di fiducia di Paolo Borsellino, raccontò che il giudice Antimafia lo fece uscire dal carcere, nonostante non si potesse fare, quindi contro la legge. Ha scritto libri, parlato di varie entità che governano il Paese e fu sentito come teste al processo sulla trattativa. Pochi giorni fa ha riportato l’ennesima condanna per le false accuse nei confronti di Antonio Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano.

PENTITI CHE OSCILLANO COME BRUSCA

In particolare, sulla strage di via d’Amelio, diversi pentiti si sarebbero inseriti nel raccontare le loro verità solo dopo che erano emersi nuovi nomi nelle accuse degli inquirenti. Tra questi, figurerebbero anche pentiti che non erano di Cosa Nostra, come Nino Lo Giudice, che un tempo era a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria. Il “Nano”, così era soprannominato, sapeva, ma non lo aveva mai detto prima, che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, uomo recentemente morto d’infarto, su cui si era concentrato l’imbuto dei misteri. Glielo avrebbe confidato anni prima Pietro Scotto, quando erano insieme in carcere all’Asinara. Non solo, sempre a dire del “Nano”, anni dopo lo stesso Aiello avrebbe pure partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio nel 1989. Le sue dichiarazioni, rese a Reggio Calabria, furono trasmesse alle Procure siciliane. Ma ogni tanto c’è anche un giudice a Berlino. Nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla Trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia, che il più delle volte hanno l'attitudine a compiacere la pubblica accusa. Il giudice parla di cautela nelle valutazioni, perché «non consentono, in via astratta, di escludere che le indicazioni fornite siano state indotte dalla volontà di compiacere gli inquirenti, in dipendenza della particolare importanza che alle stesse indicazioni sarebbe stata attribuita».

La notazione che si legge nelle motivazioni vale, in particolare, per il pentito Giovanni Brusca «nelle cui dichiarazioni si devono registrare aggiornamenti inediti, seguiti a una nuova inchiesta giudiziaria promossa nei suoi confronti, e svariate oscillazioni, concernenti indicazioni di notevole rilievo, che potrebbero essere state influenzate da improprie interferenze inquinanti, collegate a notizie di stampa relative a pregresse acquisizioni dibattimentali».