L’Organizzazione per la cooperazione internazionale e lo sviluppo economico (Ocse) entra a gamba tesa sull’indipendenza dei magistrati italiani. E lo fa in due modi diversi: con un report nel quale bacchetta l’Italia per il basso numero di condanne nei processi per corruzione internazionale e una inusuale lettera scritta dal presidente del Gruppo di lavoro, Drago Kos, a sostegno di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, l'accusa nel caso Eni-Nigeria, oggi a processo per rifiuto d’atti d’ufficio. Due documenti che partono da un assunto: i giudici italiani - e quelli milanesi in particolare - non hanno lavorato bene nel valutare i grandi casi di corruzione, avendo avuto l’ardire di assolvere gli imputati. Perché basta formulare l’accusa, secondo quanto emerge da tale documento, a certificare l’esistenza di un accordo corruttivo. Poco importa se il processo dimostra il contrario.

Le critiche dell’Ocse riguardano soprattutto il procedimento contro Eni per la presunta tangente da oltre un miliardo nell’affare Opl245, fascicolo in mano a De Pasquale e Spadaro e naufragato oltre un anno fa con una sentenza che ha, di fatto, demolito il lavoro dei due magistrati. Quella tangente, secondo i giudici del Tribunale di Milano, non è infatti mai stata provata. Ma c’è di più: molte delle prove portate a processo sono risultate “manipolate”, mentre altre, ritenute estremamente utili alla difesa, sono state tenute nel cassetto, tanto da costare a De Pasquale e Spadaro una richiesta di rinvio a giudizio a Brescia. Dove adesso arriva la mano dell’Ocse, con la lettera - a titolo personale - del numero uno del Gruppo di lavoro, depositata da De Pasquale in vista dell’udienza preliminare del 2 novembre. Kos esprime contrarietà nei confronti della pg Celestina Gravina, che ritirò l’appello contro Eni riducendo a «chiacchiere e opinioni generiche» l’intero processo. «Non c’è prova di nessun fatto rilevante», aveva affermato la pg, secondo cui motivi d'appello presentati da De Pasquale erano «incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». Parole, quelle di Gravina, «improprie e contrarie alla Convenzione Ocse», secondo Kos, che invece indica De Pasquale e Spadaro come «esempi luminosi per altri pm in tutto il mondo».

Le critiche del rapporto Ocse

Ma quali sarebbero le colpe dei giudici italiani? Intanto aver assolto troppa gente: gli ultimi sette processi si sono chiusi con cinque assoluzioni, una sesta parziale e una condanna. Troppo poco, dunque, partendo evidentemente da un presupposto: la tesi dell’accusa è sempre corretta. Ciò, probabilmente, senza aver analizzato l’enorme mole di atti che porta con sé ogni processo, compreso Eni-Nigeria, che ha richiesto tre anni di udienze per giungere al termine. Nonostante, dunque, l'Italia abbia «rafforzato la sua legislazione» e mostrato «un livello significativo di applicazione della corruzione all'estero con un ritmo in aumento dal 2011», a sbagliare sono i giudici, colpevoli di non aver considerato «contemporaneamente la totalità delle prove fattuali», valutando «ciascun elemento di prova solo singolarmente». Parole che ricalcano in maniera quasi pedissequa le considerazioni fatte mesi fa da De Pasquale nel proprio appello contro le assoluzioni.

È infatti proprio il magistrato che, a pagina 7 della sua impugnazione, parla di una valutazione «atomistica e parcellizzata degli elementi di prova acquisiti». E nella stessa pagina cita proprio la posizione del gruppo di lavoro dell’Ocse, che da tempo collabora con il magistrato. C’è poi un altro “difetto”, secondo l’Ocse: pretendere «uno standard di prova molto pesante». Standard che, verrebbe da dire, consente di superare la soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio ed evitare clamorosi errori giudiziari. De Pasquale, invece, a pagina 10 dell’appello “confonde” fatti penalmente rilevanti con questioni etiche: «Il Tribunale non esprime un giudizio preciso sulla responsabilità di Eni e Shell (e i loro dirigenti) nell’ipotizzata attività di pressione - si legge - e neppure valuta se un simile comportamento corrisponda agli standard di etica degli affari richiesti dalla comunità internazionale».Il fronte in difesa di De Pasquale. A novembre dello scorso anno era stato un gruppo di 15 magistrati e giuristi di dodici nazioni a sollecitare l’Ocse ad accendere un faro su De Pasquale. «La procura di Milano - scrivevano le toghe - è ora sotto attacco per aver perseguito casi di corruzione internazionale».

La critica era diretta ai magistrati di Brescia, che avevano “osato” indagare i due magistrati del caso Eni per rifiuto d’atti d’ufficio. Una lettera dal tenore completamente diverso rispetto a quella di 27 colleghi milanesi, che il 3 marzo 2020 “puntavano il dito” contro il trattamento di favore riservato al dipartimento di De Pasquale, che poteva contare su un «carico di lavoro significativamente inferiore» rispetto a colleghi che pure si occupavano di reati gravi. Una sorta di “privilegio” contestato all’allora procuratore Francesco Greco, che si vide bocciare il progetto organizzativo della procura da parte del Csm. E dopo il suo pensionamento, fu lo stesso De Pasquale ad essere “bocciato” dal reggente Riccardo Targetti, che espresse parere non positivo sul magistrato per la riconferma a capo del pool affari esteri. Valutazione che, casualmente, è stata espressa proprio nella giornata in cui gli ispettori dell’Ocse si trovavano in missione in tribunale a Milano, lo scorso 6 aprile.

Le critiche della difesa

«La posizione assunta dal signor Kos, peraltro sembrerebbe a titolo “personale” e che di fatto sintetizza la tesi espressa dal dottor De Pasquale sia in primo grado sia nei motivi d’appello, mi ha sorpreso per vari motivi - spiega al Dubbio Enrico De Castiglione, legale di Paolo Scaroni, ex numero uno di Eni -. In primo luogo per esprimere un parere autonomo e fondato sul processo Eni Nigeria il signor Kos avrebbe dovuto leggere e studiare tutte le carte e le prove di un processo (che ha comportato anni d’istruttoria dibattimentale) nonché tutti gli argomenti sviluppati dalle difese. Cosa che ritengo difficile possa essere avvenuta», premette il legale. Che poi rileva come a «demolire l’impianto accusatorio non siano stati solo il procuratore generale e prima ancora il Tribunale di Milano», ma anche la Corte d’Appello, nel parallelo processo riguardante alcuni coimputati. Decisioni coerenti con quelle assunte dall’Alta Corte di Giustizia Inglese e l’Alta Corte Federale Nigeriana. Dunque, «il grave errore in cui mi sembrano essere caduti il signor Kos e il suo gruppo di lavoro - conclude - sta nell’equiparare l’ipotesi accusatoria – che deve essere verificata e validata nel corso di un processo che in Italia, come nel resto del mondo democratico, soggiace a ben precise regole – con la verità dei fatti».