È di qualche giorno or sono la notizia del “singolare” provvedimento di un magistrato di sorveglianza che ritiene che l’acqua calda (durante la stagione invernale) non sia un diritto dei detenuti, quanto piuttosto dei soli ospiti degli alberghi (www.rainews.it/amp/tgr/toscana/articoli/2024/07/lacqua

calda-non-e-un-diritto-in-cella-solo-in-hotel-verifiche-del-garante-e4f08d7c-2f34-4bb8-bb9c dcec9c0c1983.html). Avrei volentieri soprasseduto dal commentare un provvedimento così imbarazzante (alle bestie e neanche a tutte viene inibita l’acqua calda in inverno) se non fosse che quel provvedimento proviene dalla stessa area geografica (mi auguro non dalla stessa penna) di quello che tempo fa ebbe a negare la liberazione anticipata ad un condannato poiché colpevole di aver tentato di togliersi la vita mediante impiccagione. E perché non residuino dubbi sulle esatte dimensioni della questione – a questo punto doverosamente da commentare -, ne riporto testualmente la parte motiva: “considerato che il tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera rieducativa”.

Non c’è bisogno di dire che la prima reazione che ho avuto è stata di pancia e non credo proprio che sia importante trasmetterla.

Piuttosto, la questione va affrontata con razionalità per i numerosi aspetti che sottende.

Il primo: il bollettino di guerra dei suicidi in carcere del 2024 narra di circa otto morti al mese. Cui debbono aggiungersi i decessi per autosoppressione degli appartenenti alla polizia penitenziaria, le morti dei detenuti non curati adeguatamente nelle prigioni (“diamine!” - dirà il dirigente sanitario di turno – “allora è vero che stava male!” Seppellendo, conseguentemente, l’angoscia con un rassicurante “pazienza!”), i tentativi di suicidio, come nel caso che ci occupa da vicino. Dietro i numeri, ci sono uomini e donne, padri, mariti, figli, fratelli. E un universo di dolore incompreso e incomprensibile che fa da sfondo e che rafforza le mafie con il capocosca del paese che, mandando, corone di fiori, rassicura la famiglia del disperato con una commossa, sincera, sentita stretta di mano. Dietro i numeri, ci sono algide telefonate di tristi burocrati (non in tutti i casi, per carità), che raccontano al familiare di turno che, per una spiacevole circostanza, il loro congiunto si è tolto la vita: una finta vicinanza alla famiglia che lava la coscienza di chi la propone e proietta chi la riceve in una terza dimensione sorda e vuota. Dietro i numeri, ci sono gli attimi che precedono il gesto e la lucida follia di scegliere di abbandonare un inferno terreno certo a beneficio di un inferno soprannaturale probabile: il lenzuolo preparato con cura, il pensiero alla famiglia, forse una preghiera, la foto di un figlio stretta nella mano e poi… poi basta chiudere gli occhi e darsi una spinta. Davvero era così semplice uscire dal carcere!

Il secondo: il provvedimento che oggi commentiamo è frutto di un iter burocratico che passa attraverso una istanza del detenuto o del suo difensore, una relazione sintetica della casa circondariale, un parere di un PM e una decisione. Cioè a dire: il magistrato di sorveglianza è solo la punta dell’ iceberg; dietro ci sono (probabilmente) avvocati che propongono istanze ciclostilate, psicologi ed educatori che rimarcano l’esistenza di un preteso pregiudizio alla concessione della liberazione anticipata, un PM che si confronta con la vicenda e, POI, un Giudice che decide. In breve: ci SIAMO tutti coinvolti in questa vicenda. Chi più chi meno. Certamente fa specie leggere che il tentativo di suicidio sia incompatibile con l’opera rieducativa propria della pena, per la semplice, banale, circostanza che il tentativo di suicidio è la prova granitica della totale assenza dell’opera rieducativa!

Dov’erano gli psicologici, i medici e gli educatori del carcere nei giorni antecedenti il tentativo di autosoppressione?

Il terzo: alla base del “singolare” provvedimento, ritengo possano esservi due diverse causali. La prima che mi viene in mente è l’eccessiva burocratizzazione del lavoro del giudice di sorveglianza, seppellito da migliaia di richieste che vengono decise, con abdicazione completa della funzione giurisdizionale, secondo una logica adesiva alle proposizioni della casa circondariale. Si potrebbe trattare, pertanto, di superficialità valutativa. La seconda è molto più complessa e passa attraverso la coscienza di chi decide che potrebbe essere davvero fermamente convinto che il detenuto meriti di non avere la diminuzione di pena poiché colpevole di irriconoscenza nei confronti del sistema che, pur accogliendolo nonostante i suoi errori, viene tradito dal ribaldo gesto anticonservativo. In entrambi i casi ci si troverebbe di fronte ad un problema di titanica soluzione, non sapendo dire se sia più grave l’infingardaggine o la totale misconoscenza del mondo delle carceri fatta di dolore, sangue, disperazione, totale assenza (in alcuni, molti, casi) di ausilio da parte dell’istituzione preposta e di lenzuola che talora si spezzano (come, magari, sarà avvenuto nel nostro caso) e talaltra no.

La soluzione: il senso del presente scritto non è affatto una serrata critica alla magistratura, quanto piuttosto una richiesta di aiuto. La deriva della critica oltranzista ad un provvedimento scarsamente perspicuo che dovrebbe accomunare tutta la magistratura avrebbe né più, né meno, la stessa patente di irragionevolezza di quelle tanto criticate retate a strascico che fanno inorridire anche la gente comune, o della tesi secondo cui tutti gli avvocati sono degli imbroglioni perché qualcuno di noi ha rubacchiato alla vecchietta i soldi dell’ assicurazione.

Ecco perché la richiesta accorata, sincera, leale ai magistrati: abbiano loro stessi il coraggio, PUBBLICO, di definire per quello che è, quel provvedimento: una mostruosità!

Un errore appartiene agli uomini. Incomprensibile sarebbe non riconoscere l’errore (recte, l’orrore) e, peggio ancora, sarebbe il silenzio dei giusti. Dal canto nostro, saremo attenti a riconoscere i nostri sbagli e a censurarli, con espressa abiura alla difesa di casta.

Il sistema ritroverà equilibrio e i rapporti tra le parti torneranno ad essere corretti in forma e sostanza: ad un'avvocatura utile fa di controcanto una giustizia credibile. Quel lenzuolo spezzato può essere evocativo di una nuova era di dialogo e reciproca – smarrita - fiducia. Perdere un’occasione del genere è un abominio irredimibile: una sorta di ausilio all’ illegalità di genere che si rafforza e si conserva sull’illegalità di Stato.

Si tratta, in fondo, di scegliere se sia più giusto costruire un ponte o bombardarlo.

Ex partibus infidelium.

*Direttivo Camera penale di Palmi