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A fianco di Leda Colombini e all’associazione A Roma Insieme sono stato tra i promotori delle leggi pensate perché “nessun bambino varcasse più la soglia di un carcere”. Oggi vorrei chiedere chiarimenti sulla applicazione della legge 62/ 2011 che di fatto non è applicata nel suo principio fondamentale, tanto che ad oggi nelle carceri italiane ancora sono detenuti circa 50/ 60 madri con altrettanti bambini. È una ingiustizia che deve necessariamente essere sanata.
Gli operatori della giustizia, i magistrati, applicano - interpretandola - la legge: senza però tenere in considerazione, spesso, la storia della persona che stanno giudicando. La pericolosità di un individuo è misurata, oltre che sul tipo di reato, sulla “quantità”, ovvero su quanti reati ha compiuto. Nel caso delle madri detenute noi ci troviamo di fronte a donne di origine straniera ( e per lo più rom: l’ 80%). Bene, queste donne sono responsabili di reati che nascono in genere da un problema culturale, sociale ed economico: le donne nigeriane, di solito, sono condannate per reati legati alla prostituzione a cui sono costrette con violenza e coercizioni, dai maschi; le rom compiono reati come furti, rapine, a cui sono costrette dai loro mariti. Stiamo quindi parlando di donne schiavizzate, vittime due volte della violenza maschile: costrette a rubare e a scontare una pena.
Quello che vorrei chiedere ai giuristi ed ai magistrati è perché nonostante due leggi approvate per tutelare la genitorialità e liberare i bambini dal carcere ancora oggi nelle carceri ci sono bambini. Perché nonostante la legge 40 del 2001, cosiddetta Finocchiaro, che all’art. 1 prevede il rinvio della pena, ovvero il differimento se questa deve aver luogo nei confronti di donna incinta - o nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno - perché ci sono tante donne in carcere con i loro bambini? Perché la donna tedesca che ha ucciso i suoi due figlioletti, di cui uno di età inferiore ad un anno, era in carcere?
Mi si risponderà: perché non era condannata e quindi definitiva. E allora vi chiedo per quale ragione una donna madre condannata può usufruire del differimento e una donna che si trova nelle stesse condizioni, in attesa di giudizio – e cioè innocente - non può usufruirne?
La signora Sebasta, oltretutto, era incensurata, non aveva compiuto reati così gravi ( detenzione di marijuana), era reo confessa, non parlava una parola di italiano, ed era stata segnalata al suo ingresso in carcere per una visita specialistica psichiatrica mai avvenuta.
Tutti sappiamo che il carcere è un luogo inadatto per il bambino, per tante ragioni: prima fra tutte la mancanza di libertà, di contatto con l’esterno, con la vita, con la normale quotidianità in cui dovrebbe crescere un bambino soprattutto in una fase di vita definita dell’imprinting. Così come la separazione forzata dalla madre è impossibile da elaborare e comprendere per bambini di appena tre anni: crea una ferita drammatica nel piccolo in crescita.
I nuclei familiari madre- bambino, che noi ospitiamo nella “casa di Leda”, la prima casa protetta d’Italia, nata in applicazione della legge 62, evidenziano una complessità di problemi che richiedono un intervento molto più ampio e continuo che deve svilupparsi tra giustizia e servizi sociali.
I bambini che ospitiamo sono più esposti al rischio di divenire marginali rispetto ai loro coetanei. Noi partiamo dall’assunto che è nella relazione con i genitori che il bambino costruisce la propria visione del mondo e di sé, attribuendo significati alla realtà e costruendo una propria identità personale. La sua tutela non può quindi prescindere dalla tutela del legame che questi ha con la sua famiglia d’origine, ancor più quando le figure di riferimento sono portatrici di disagi multiproblematici.
Molte delle nostre ospiti non sono nelle condizioni, per ragioni di ordine sociale, familiare, di provvedere da sole in maniera adeguata alla crescita dei figli. Perché se essere genitore in condizioni di “normalità” viene riconosciuto come compito complesso, ciò lascia comprendere come essere genitore in condizioni di precarietà sociale, situazioni di disagio o eventi critici rendano ancora più difficile tale compito. Ecco allora dove si compie la giustizia non solo penale ma anche sociale, lì dove è in grado di dare risposte e offrire pari opportunità a donne che hanno bisogno e chiedono protezione sociale alle istituzioni preposte. Che risposte ha dato, lo Stato, alla signora Sebaste?
LILLO DI MAURO
RESPONSABILE CASA DI LEDA, PRESIDENTE DELLA CONSULTA PENITENZIARIA DI ROMA CAPITALE