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Era stato escluso dalle attività in comune per aver augurato la buonanotte ai detenuti appartenenti ad un diverso gruppo di socialità. Un’inutile afflizione, «non prevista e quindi non consentita, nei confronti del detenuto», secondo la Cassazione, che ha respinto il ricorso avanzato dal ministero della Giustizia contro il Tribunale di Sorveglianza dell'Aquila. Il magistrato di sorveglianza, il 2 aprile scorso, aveva infatti rigettato il reclamo proposto dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria contro la decisione di revocare il provvedimento disciplinare inflitto a Mario De Sena, che all’epoca dell’Nco era il referente di Raffaele Cutolo nella zona di Acerra, escluso dalle attività per avere salutato (augurando la "buonanotte") detenuti appartenenti a un diverso gruppo di socialità. Il reclamo del Dap si fondava su quanto disposto dall’articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario, che prevede l'impossibilità di comunicare tra detenuti di diversi gruppi di socialità e che vieta quindi ogni forma di dialogo e comunicazione tra loro, sottolineando che «la comunicazione può anche essere non verbale». Una constatazione contestata dal Tribunale di Sorveglianza, secondo cui quel divieto di comunicazione, finalizzato ad evitare uno scambio di notizie, doveva pertanto «essere costituito da uno scambio di contenuti». Il semplice saluto, ha dunque evidenziato il Tribunale di Sorveglianza era, invece, «una forma espressiva neutra, dalla quale non poteva evincersi quale tipo di informazione potesse essere scambiata». Una posizione contestata dal ministero della Giustizia, nel cui ricorso ha avanzato la tesi di una erronea applicazione di legge, sostenendo che l’azione disciplinare «non aveva addotto alcun pregiudizio al diritto del detenuto di comunicare, il quale era garantito dal gruppo di socialità di assegnazione, mentre il divieto in oggetto era finalizzato a impedire contatti con propri sodali». Nelle motivazioni del ricorso, il ministero ha contestato al Tribunale di Sorveglianza un'interpretazione della norma «che superava un limite imposto espressamente, e sostanzialmente aveva configurato come diritto la facoltà di procedere allo scambio comunicativo, poiché il termine "comunicazione" doveva intendersi quale comprensivo di ogni forma di contatto, il quale può rivelarsi anche nel saluto, nel gesto, nelle movenze e in ogni scambio alternativo all'ordinario che può definire un ruolo e un messaggio occulto». Lo stesso procuratore generale della Cassazione ha però chiesto il rigetto del ricorso, in quanto, così come rilevato dal Tribunale di Sorveglianza, «il mero saluto non poteva essere assimilato ad una trasmissione verbale di contenuti ed informazioni, vietata appunto dalla normativa specifica». L'articolo 41 bis, comma 2, evidenziano i giudici di Cassazione, stabilisce che quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, «il ministro della Giustizia possa disporre, nei confronti di detenuti o internati per gravi reati in materia di terrorismo o di criminalità organizzata, la sospensione, in tutto o in parte, delle regole del trattamento che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, al fine di impedire i collegamenti con un'associazione criminale, terroristica o eversiva». Tuttavia, «non può non rilevarsi che per "comunicazione" si intende il processo e le modalità di trasmissione di una informazione da un individuo a un altro attraverso lo scambio di un messaggio connotato da un determinato significato: il concetto di comunicazione comporta la presenza di un'interazione tra soggetti diversi, nell'ambito della quale due o più individui costruiscono insieme una realtà e una verità condivisa», si legge nelle motivazioni della decisione presa dalla Cassazione. Secondo cui, nel caso specifico, «correttamente il Tribunale di Sorveglianza rilevava che la mera dichiarazione di saluto doveva considerarsi di natura neutra, nel senso che non vi era modo di cogliere una particolare informazione trasmessa in quel modo: in definitiva, un atto privo di un vero e proprio intento comunicativo (o almeno, diverso da quello evidente)». La sanzione, dunque, rappresenta «una inutile afflizione, non prevista e quindi non consentita, nei confronti del detenuto, essendo stata invece rispettata la finalità della norma».