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Giuseppe Meliadò
Giornate decisive per la riforma civile. Scade domattina alle 12, in commissione Giustizia al Senato, il termine per presentare le proposte di modifica agli emendamenti del governo sul ddl. Gli avvocati e i docenti universitari, come già rilevato nei giorni scorsi dal nostro giornale, esprimono forti perplessità. A loro si aggiunge il presidente della Corte d’appello di Roma, Giuseppe Meliadò, che ha scritto alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Secondo Meliadò, i ritardi nella definizione delle cause arretrate hanno origini ben precise. La prima riguarda il mancato recupero «di una piena collegialità». La seconda è dovuta alla «mancanza di oralità e concentrazione» nel processo d’appello, che «di norma, già istruito, dovrebbe esaurirsi in una sola udienza, la prima, e, soprattutto, non dovrebbe replicare il modello processuale del primo grado». A ciò si aggiunge la mancata attuazione della riforma del 1990. Il numero uno della Corte d’appello capitolina sottolinea l’utilità di un modello processuale «simile a quello del processo del lavoro», che ha sortito effetti positivi sia sulla riduzione della durata media delle cause sia sulla riduzione dell’arretrato. Lo dimostrerebbero le esperienze della Corte di Roma e di altre Corti distrettuali. Si tratta, evidenzia Meliadò, «di un modello che, per la sua versatilità e per la piena conformità al quadro normativo di riferimento e alle delibere del Csm sull’ufficio per il processo, potrebbe estendersi come modello decisorio di riferimento per tutte le Corti d’appello italiane». In che modo? Il presidente Meliadò suggerisce una modifica dell’articolo 352 del Codice di procedura civile (riguardante, tra le altre cose, la precisazione delle conclusioni e la discussione orale davanti al collegio) che abbia come punto di riferimento quanto indicato dall’articolo 281-sexies sempre del Codice di rito (decisione a seguito di trattazione orale). Nelle sue proposte inviate alla ministra Cartabia l’alto magistrato, forte di una esperienza ultradecennale come giudice del lavoro, si sofferma sull’organizzazione degli uffici. Quando è basata sulle difese scritte delle parti e sullo studio degli atti, «dopo che il collegio ha trattenuto la causa in decisione», si verifica un impedimento per la definizione dei procedimenti e la piena attuazione dei nuovi strumenti deflattivi. Ecco riemergere l’utilità del modello processuale ispirato al rito del lavoro, dato che quando la sentenza viene depositata subito dopo la discussione orale della causa assisteremmo a un «benefico ed immediato effetto anche sulla percezione del servizio pubblico da parte dei cittadini». «Solo un processo breve – sostiene Meliadò –, concentrato e condotto da un giudice indipendente e rispettoso delle parti, può garantire l’accettazione della sentenza anche da parte del soccombente, come da tempo affermano gli studiosi della cosiddetta giustizia procedurale». Un’altra riflessione è riservata al “consigliere istruttore”, il cui ruolo viene criticato non solo da Meliadò, ma pure dall’«Associazione italiana tra gli studiosi del processo civile» (Aispc). L’emendamento governativo al ddl civile (Atto Senato 1662) prevede che la trattazione in Corte d’appello si svolga «davanti al consigliere istruttore, designato dal presidente» al quale sono attributi svariati poteri, compreso quello di procedere alla riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza. Il presidente della Corte d’appello di Roma considera la riesumazione di tale figura incoerente rispetto al lavoro fatto negli ultimi anni per semplificare le forme e ridurre i tempi nel secondo grado di giudizio. Si svilirebbero, in sostanza, le attività di coordinamento dei presidenti di sezione e l’integrale trattazione collegiale. Dello stesso parere gli studiosi di diritto processuale, secondo i quali la reintroduzione del “consigliere istruttore” porterebbe alla «monocratizzazione surretizia» dell’appello con conseguente svilimento dei poteri del collegio.