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«A un certo punto in udienza ci è stato detto: “Avete aspettato tanto, cosa volete che sia un mese in più? Ma ogni mese per noi il dolore aumenta... ”». Il racconto è di Rosaria Manzo, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage di Natale, quella compiuta 33 anni fa sul rapido 904, che provocò 16 vittime e oltre 260 feriti. Manzo ha appena ascoltato la Corte d’Assise d’Appello di Firenze, presidente Salvatore Giardina, rinviare «a data da destinarsi» il processo di secondo grado che ancora cerca altre verità sulla strage. Unico imputato: Totò Riina, mandante secondo l’accusa ma assolto due anni fa in primo grado per mancanza di prove. Il rinvio deriva da una coincidenza. Da una parte la riforma penale entrata in vigore il 3 agosto ha introdotto l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale, cioè di riascoltare i testimoni, qualora l’appello nasca dal ricorso del pm, ed è questo uno dei casi.
Dall’altra, il fatto che lo stesso presidente Giardina va in pensione a ottobre, e quindi non ci sarebbe stato tempo di completare il dibattimento: lo si sarebbe dovuto interrompere e poi riprendere daccapo davanti a un nuovo collegio.
Certo, adesso dovrà provvedere il presidente della Corte d’Appello di Firenze, Margherita Cassano, a nominare i nuovi giudici, andrà perso anche più di un mese. Intanto la stessa Cassano dovrà trasmettere una relazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando, per ribadire come non ci fosse altro da fare. Ma è quella frase a diventare un tarlo: “Avete aspettato tanto tempo, cosa cambia?...”. La strage è del 23 dicembre 1984. Si cerca un mandante 33 anni dopo. Si dovranno riascoltare testimoni già sentiti in primo grado, che difficilmente ricorderanno più dettagli di quanti ne riferirono quattro o cinque anni fa. Ha davvero senso tenere le speranze dei familiari sospese a una giustizia così claudicante, che deve a procedere a tentoni in una quasi impossibile retrospettiva di quelle tragiche vicende? E soprattutto: quella frase, “avete già aspettato tanto tempo, cosa cambia?..”, è surreale proprio perché il punto non è aspettare solo un altro mese in più, ma stabilire se davvero abbia senso celebrare un processo sette lustri dopo i fatti in questione.
Finisce che la presidente dell’Associazione delle vittime di via dei Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli, se la prenda proprio con Orlando, “padre” della riforma che impone il ri- in aula dei testimoni: «Quando avremo la verità, se anche i ministri della Giustizia remano contro in tempi che paiono sospetti?...». Al che da via Arenula arriva un comunicato: «La necessità di rinnovare il dibattimento in caso di appello del pm contro una sentenza fondata su prove testimoniali discende da una consolidata giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo, ampiamente recepita dalla Corte di Cassazione già prima della modifica legislativa dello scorso luglio, che ha semplicemente adeguato la formulazione della norne, ma. Non vi è stato perciò alcun imprevedibile rallentamento del processo a seguito dell’entrata in vigore della recente riforma». Ed in effetti è come spiegano dal ministero della Giustizia. Ieri si sarebbero dovute ascoltare le nuove testimonianze dei boss Giovanni Brusca, Francesco Paolo Anselmo, Baldassarre Di Maggio, oggi sarebbe toccato a Calogero Ganci, Giuseppe Marchese e Leonardo Messina. Poi sarebbe stato necessario risentire tutti i teste del processo di primo grado. «Sarebbe stato necessario anche se non fosse intervenuta la nuova disposiziotorno ovvero il comma 3– bis della articolo 603 del codice di rito, comma introdotto appunto di recente: la terza sezione della Cassazione si era già pronunciata con chiarezza sulla necessità di rinnovare il dibattimento e tale orientamento era seguito da anni». A spiegarlo è Gaetano Pecorella, che oltre ad essere un penalista di fama è stato, da presidente della commissione
Giustizia della Camera, autore di una legge che aboliva la possibilità di appello del pm in caso di proscioglimento in primo grado. Legge poi dichiarata incostituzionale dalla Consulta. «È chiaro la soluzione ribadita dall’ultima riforma non soddisfa l’esigenza alla base della legge da me promossa: quella norma affermava il principio per cui una persona va condannata solo se ritenuta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, e un’assoluzione in primo grado segnala che come minimo esistono forti dubbi di colpevolezza. Ecco perché quella mia legge consentiva il ricorso del pm solo di fronte all’emergere di nuovi elementi di prova». Ma poi Pecorella avanza un’obiezione più specificamente rivolta al processo per la strage del 904: «Parliamo di un processo a 33 anni di distanza dai fatti, a un moribondo, Riina, assolto in primo grado: ma non sarebbe meglio fare processi che servono a qualcosa? A chi serve e a cosa serve far spendere tanti soldi inutilmente, destinare magistrati alla ricerca di una verità che, per giunta, porterebbe a un’eventuale condanna all’ergastolo di chi di ergastoli ne ha già diversi da scontare?». Considerazione a cui non è semplice controbattere.
In questa lunghissima vicenda giudiziaria, per la cronaca, esistono già dei colpevoli con sentenza definitiva: il boss Pippo Calò e il suo braccio destro Guido Cercola, entrambi condannati all’ergastolo per strage, Franco Di Agostino ( 24 anni), l’artificiere tedesco dell’attentato, Friedrich Schaudinn ( 22 anni), il capo camorra Peppe Misso e altri componenti del suo clan, condannati a pene minori per detenzione di esplosivo. Sentenze passate in giudicato nel 1992, 8 anni dopo la strage, e un quarto di secolo prima questo estremo, forse irragionevole come dice Pecorella, tentativo di scavare ancora.