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Lo scorso 2 gennaio è scomparso all’età di 82 anni Ferdinando Imposimato, uomo dalle molte vite e anche dalle prese di posizione più diverse e contraddittorie. Prima di diventare magistrato era stato vicecommissario di polizia, una esperienza che portò con sé nella successiva carriera di giudice istruttore. In carcere alcuni esponenti della grande “Mala” raccontavano dei suoi metodi poco ortodossi quando gli interrogatori non facevano progressi. Fu protagonista tra la fine degli anni 70 e il decennio 80 delle maggiori vicende giudiziarie che occuparono la scena romana: dai sequestri a scopo di estorsione ( Amati, Apolloni e Palombini), la caccia al clan dei marsigliesi e a Laudavino De Sanctis, conosciuto come “Lallo lo zoppo”, alle indagini sul rapimento e l’uccisione del leader democristiano Aldo Moro, all’istruzione del processo contro la colonna romana della Brigate rosse, che poi sfociò nel cosiddetto Moro Ter, all’inchiesta contro la banda della Magliana, all’attentato contro il pontefice Woitila e la scomparsa di Emanuela Orlandi.
Utilizzò senza scrupoli, come tutti i suoi colleghi, gli strumenti e le facilitazioni inquisitorie che gli erano stati forniti dalla legislazione speciale varata in quegli anni. Un diciannovenne romano arrestato nei primi anni 80 per banda armata dopo aver già trascorso alcuni mesi di isolamento si vide contestare la richiesta fatta ai propri familiari di una copia del libro di Lenin, Stato e rivoluzione. «Non vuoi proprio cambiare, ti ostini ancora con certe idee!» – gli disse Imposimato infliggendogli altri mesi di isolamento.
All’epoca i giudici istruttori prendevano posto alla destra di Dio, avevano un potere inquisitorio enorme che non conosceva bilanciamenti. Per evitare le scarcerazioni per scadenza dei termini di detenzione cautelare nell’inchiesta Moro ter non ebbe scrupoli ad incriminare nuovamente decine di imputati, si arrivò così al maxi processo per «insurrezione armata contro i poteri dello Stato», istruito contro oltre 600 militanti delle Brigate rosse, che si concluse con un’assoluzione generale. Lo Stato si rese conto che alla fine una condanna sarebbe valsa come un riconoscimento della politicità assoluta di quei nemici che tentava di criminalizzare in ogni modo. Imposimato distolse lo sguardo anche davanti alla denuncia delle torture subite da Enrico Triaca, il tipografo delle Br arrestato una settimana dopo il ritrovamento del corpo dello statista democristiano in via Caetani e sottoposto al waterboarding da una squadra speciale del ministero dell’Interno comandata dal funzionario dell’Ucigos Nicola Ciocia.
Era anche capace di battute fulminanti come quando un imputato per banda armata che aveva scelto di rispondere spiegando le proprie ragioni impiegò l’espressione «critica pratica». Davanti allo sguardo inter- rogativo del segretario che trascriveva l’interrogatorio, Imposimato replicò col suo accento campano: «Accidere. Quando questi dicono critica pratica vogliono dire “accidere”», sottolinenado la frase con il segno della croce.
Fu senza dubbio un magistrato integerrimo dell’emergenza, poco amato però dai dietrologi dell’epoca, detestato da Sergio Flamigni perché nel corso delle sue indagini aveva identificato la base dove era stato rinchiuso il presidente del consiglio nazionale della Dc, l’appartamento al piano rialzato di via Montalcini 8, nella zona Portuense di Roma. C’era arrivato per gradi e per logica, come spesso aveva sostenuto difendendo a spada tratta quella scoperta che tanto faceva e fa ancora infuriare i complottisti. Forse fu sulla scia di quelle polemiche e ancora di più dopo lo choc causato dall’uccisione nell’ottobre del 1983 del fratello sindacalista, ritorsione di alcuni clan camorristici, che Imposimato cambiò gradualmente atteggiamento. Appartiene proprio a questa nuova stagione un articolo apparso nel 1988 su una rivista della Dc nel quale l’allora giudice istruttore censurava chi «con assoluta mancanza di obiettività, frutto di ignoranza dei fatti [...] conclude che del sequestro Moro, dei suoi autori e mandanti, della sua dinamica, delle complicità e delle conseguenze politiche non si sa nulla, contribuendo a creare in questo modo nell’opinione pubblica un senso di sgomento, di frustrazione e di sospetti indiscriminato». In polemica con gli approcci complottisti, Imposimato individuava in ben altre ragioni i fattori che avrebbero facilitato il successo della lotta armata, come «il ritardo culturale dello Stato rispetto al fenomeno [...] la profonda ignoranza di fatti e personaggi che da anni erano sulla scena del terrorismo», per concludere che l’ipotesi di «un “grande vecchio” che abbia ordito e attuato la strategia della tensione e lo stesso sequestro dell’on. Aldo Moro significa proporre una verità di “comodo” che non tiene conto della complessità della situazione del terrorismo di questi anni».
Una posizione molto netta che lo portò nel decennio 90, una volta eletto parlamentare indipendente nelle fila del Pci, ad appoggiare anche l’ipotesi di un’amnistia per i reati politici degli anni 70. Nello stesso periodo ebbe anche degli incarichi all’Onu come consulente per la lotta al terrorismo e al narcotraffico. Qui conobbe Louis Joinet, il magistrato francese consulente dell’Eliseo che negli anni 80 aveva architettato la dottrina Mitterrand e che Imposimato voleva accusare di favoreggiamento della lotta armata quando era giudice istruttore.
Eletto presidente onorario della corte di cassazione dopo il 2000 divenne avvocato della famiglia Orlandi e di Maria Fida Moro, la figlia da sempre più irrequieta del leader democristiano ucciso dalle Br, con cui condivise fino al parossismo l’ultima stagione della sua vita che lo portò ad inseguire le tesi complottiste più estreme, come la denuncia del ruolo che avrebbe giocato il gruppo Bilderberg nelle vicende italiane, dalla strage di piazza Fontana, al sequestro Moro, alle stragi di mafia. Tesi sostenute in due volumi: “Doveva Morire”, scritto con Sandro Provvisionato e ” La Repubblica delle stragi impunite”, pubblicazione che ebbe un grande successo di vendite ma lo vide vittima di un cla- moroso raggiro, quello di un falso testimone, poi incriminato dalla magistratura, che lo convinse della mancata irruzione delle forze di polizia nella base brigatista dove era tenuto lo statista democristiano. Ormai senescente ed in guerra anche contro i vaccini, Imposimato divenne una delle icone più amate del Movimento 5 stelle che lo candidò alla presidenza della Repubblica. Tuttavia neppure questa sua radicalizzazione ultradietrologica l’ha reso ben accetto alla comunità dei complottisti: la terza relazione che ha da poco chiuso i lavori della seconda commissione Moro lo indica, insieme al suo collega Rosario Priore, tra i massimi responsabili della «verità negata» sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. L’ultima generazione dei dietrologi sembra aver messo in soffitta il vecchio paradigma del doppio Stato e punta l’indice contro il primo Stato, quello un tempo ritenuto la parte sana delle istituzioni. Lapidario l’epitaffio pronunciato in proposito da Gero Grassi, membro della commissione: «Per quanto riguarda il caso Moro sono convinto che anche Imposimato, come prima Francesco Cossiga e Ugo Pecchioli si porti via qualche segreto. Che riposi in pace». Decisamente non c’è più gratitudine!