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Maurizio Turco
La nuova norma sulla prescrizione è incostituzionale. Lo grida a gran voce il segretario del Partito Radicale Maurizio Turco, che si è rivolto al Tribunale civile di Lecce chiedendo di mandare alla Corte Costituzionale «la legge sul “fine processo mai”» dell’ex ministro Alfonso Bonafede. Turco, assistito dagli avvocati Giuseppe Talò e Felice Besostri, ha sollevato una questione semplicissima: il diritto di ogni cittadino ad un processo dalla ragionevole durata. Ed è per questo che chiede al ministro della Giustizia Marta Cartabia di attendere la pronuncia del giudice Katia Pinto prima di decidere il da farsi sulla prescrizione.
«Sulla titolarità a ricorrere in assenza di un processo in corso - hanno sottolineato Turco, Besostri e Talò -, è stata di recente la stessa Corte costituzionale ( sentenza 278/ 2020) a riconoscere che tutti i cittadini hanno diritto a conoscere preventivamente la “tabella” del tempo che manca a proscioglierli da una eventuale accusa». Nel loro ricorso, i due legali pugliesi hanno denunciato la violazione degli articoli 3, 24, 25, 27, 111 e 117 primo comma della Costituzione, rivendicando l’esigenza di accertare il «diritto ad una ragionevole durata del processo, così come attribuito e garantito nel suo esercizio dalla Costituzione italiana, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dai vigenti Trattati sull’Unione Europea e il suo funzionamento e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’unione, e di difendersi in ogni stato e grado del giudizio mediante proposizione di ricorso efficace anche nei confronti degli organi dello Stato e della pubblica amministrazione».
In quanto istituto sostanziale, sostengono Talò e Besostri, il legislatore non può intervenire sulla norma della prescrizione «in contrasto con i principi costituzionali, convenzionali ed unionali europei che tutelano le parti processuali da un’ottusa applicazione del principio tempus regit actum». La norma deve dunque rispettare il principio del giusto processo. Ma non solo: il legislatore, laddove utilizza l’istituto della sospensione, violerebbe la semantica giuridica. «Non di sospensione si tratta - contestano i due avvocati -, ma di vera e propria abrogazione, in quanto non vi è una causa definita al cessare della quale cessi la stessa sospensione. L’unico orizzonte temporale è il passaggio in giudicato della sentenza di condanna».
Ma tale «artificio semantico» servirebbe ad ignorare la possibilità dell’assoluzione, violando il principio di non colpevolezza sancito dalla Costituzione, che dura fino al giudizio di Cassazione e non cessa, dunque, al termine del primo grado. Inoltre, tale violazione risulterebbe aggravata dal fatto che neppure una sentenza di appello confermativa dell'assoluzione di primo grado potrebbe sventare la sospensione, lasciando l'imputato in balia dell'eccessiva durata del processo, pur essendo risultato, nel merito, innocente. Senza contare, poi, la «dilatazione infinita dei termini». E ciò vale non solo per l’imputato, ma anche per le parti offese, che rischiano di vedere l’accertamento dei fatti rimandato sine die.
«Senza più determinatezza - sottolineano i due avvocati -, il cittadino non sa più se e quando potrà dirsi ripristinata la certezza della sua situazione giuridica, se e quando potrà godere del risarcimento del danno da reato, se e quando potrà dirsi accertata definitivamente la sua estraneità ad una ipotesi di reato. Sono tutti elementi che inducono i sottoscritti a richiedere l’accertamento del loro diritto ad un giudizio di durata ragionevole, ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione» .