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Lo avrebbero colpito «con schiaffi, pugni e calci fra l’altro provocandone una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale». Un pestaggio vero e proprio che i tre carabinieri in forza alla stazione Appia - Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco - avrebbero messo in atto nei confronti di Stefano Cucchi, sorpreso appena poche ore prima, all’interno del parco degli Acquedotti a Roma, con una ventina di grammi di hashish e qualche dose di cocaina. Un pestaggio vero e proprio che avrebbe provocato la morte del giovane tossicodipendente, avvenuta cinque giorni dopo l’arresto nel reparto protetto dell’ospedale Pertini. Un pestaggio avvenuto - scrivono il Procuratore capo Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò nel decreto di chiusura indagine, atto che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio - «tra le ore 2: 00 e le 3: 20» di una gelida mattina di ottobre di otto anni fa.
Pignatone e il sostituto Musarò scrivono anche che il pestaggio è avvenuto «con l’aggravante di avere commesso il fatto per futili motivi, riconducibili alla resistenza posta in essere da Stefano Cucchi al momento del foto- segnalamento presso i locali della compagnia dei carabinieri di Roma Casilina».
Ad aggravare la posizione dei tre carabinieri ( accusati di omicidio preteritenzionale aggravato, accusa decisamente più pesante di quella di lesioni ipotizzata in un primo momento dagli inquirenti e che scongiura il rischio della prescrizione del reato) anche «l’aver commesso il fatto con abuso dei poteri e con violazione dei doveri inerenti alla funzione di ufficiali di Pg e l’avere approfittato di circostanze di tempo, di luogo e di persona tali da ostacolare la provata difesa». Nell’inchiesta bis ( partita in seguito all’assoluzione disposta nell’Appello bis per i medici del Pertini) sono finiti inoltre il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante interinale della stazione Appia e accusato di falsificazione del verbale di arresto e di calunnia nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria ( finiti alla sbarra e poi assolti nell’ambito della prima indagine), e il carabiniere Vincenzo Nicolardi, con l’accusa di calunnia per avere, durante un’udienza «implicitamente accusato, sapendoli innocenti» gli agenti della penitenziaria finiti a processo in seguito alla prima indagine. Secondo la procura il maresciallo Mandolini avrebbe «omesso di riferire» che dopo la perquisizione presso la sua abitazione, Cucchi era stato portato alla compagnia Casilina per il foto riconoscimento ( in effetti mai effettuato) e che qui aveva posto resistenza agli agenti: il maresciallo aveva infatti raccontato «che il signor Cucchi mi chiese esplicitamente che non gradiva fare ( il riconoscimento, ndr), che lui detestava sporcare le mani, aveva questo terrore… gli dava molto fastidio e quindi si è subito un pochino impressionato su questa cosa». Il maresciallo poi avrebbe nascosto il fatto che «tra le 2: 00 e le 3: 20 Stefano Cucchi era stato sottoposto ad un violento pestaggio e che, quando era stato condotto presso i locali della stazione di Roma Tor Sapienza, aveva già riportato le lesioni personali» che erano state già contestate agli agenti della polizia penitenziaria. A causare la morte del giovane tossicodipendente sarebbero stati quindi i carabinieri che lo sorpresero a spacciare all’interno di un parco pubblico e che, probabilmente, erano convinti di avere messo le mani su un grosso narcotrafficante su cui indagavano ormai da diversi giorni. Un’accusa pesante ( che potrebbe costare pene fino a 18 anni di reclusione) venuta fuori dopo un’indagine a ritmi serrati durata poco più di un anno e che, una volta sbarcata in aula, dovrà stabilire le cause che portarono alla morte del ragazzo, deceduto al Pertini dopo cinque giorni di agonia.
Sembra quindi essere arrivata ad un svolta decisiva la vicenda del giovane morto in un letto del reparto detenuti di un grande ospedale della Capitale. Una vicenda che aveva già portato in giudizio undici persone: sei medici e tre infermieri del Pertini oltre a tre agenti della polizia penitenziaria che in un primo momento erano stati individuati – anche grazie alla testimonianza di un detenuto che aveva raccontato di avere sentito ( ma non visto) le botte ai danni di Cucchi – come autori del pestaggio avvenuto nelle celle custodite all’interno del palazzo di giustizia pochi minuti prima dell’udienza di convalida dell’arresto. Quel procedimento, siamo nel giugno del 2013, si concluderà con la condanna di cinque medici per omicidio colposo e di un sesto sanitario accusato di falso ideologico: secondo i giudici di primo grado Stefano Cucchi era morto per sindrome da inanizione; in altre parole il ragazzo sarebbe morto per malnutrizione sotto gli occhi dei medici. Otterranno assoluzione piena invece le guardie penitenziarie e i tre paramedici. Passa poco più di un anno, siamo ormai nell’ottobre del 2014 e i giudici di appello ribaltano la sentenza di primo grado mandando assolti tutti gli imputati. Sarà infine la Cassazione, nel marzo del 2015, ad annullare l’assoluzione per i cinque medici – disponendo per loro un nuovo processo d’appello – confermando invece le assoluzioni per gli altri indagati. Il nuovo processo di secondo grado si conclude nel luglio dello scorso anno, confermando l’assoluzione per i medici finiti a giudizio. Per i giudici gli indagati «hanno colposamente omesso di diagnosticare la sindrome da inanizione» concludendo però «che appare poco probabile che Cucchi si sarebbe salvato». Ora a distanza di otto anni da quella sera, un nuovo processo stabilirà la verità sulla fine di un ragazzo con evidenti problemi di droga che era finito in caserma da uomo sano ed era stato trasportato in tribunale - appena poche ore dopo il suo arresto - con la «frattura scomposta della quarta vertebra sacrale, la frattura discomatica della terza vertebra lombare» e con «infiltrazioni emorragiche del pavimento pelvico» e «tumefazioni e ecchimosi» alle guance, alle palpebre, al naso e alla testa».