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Alle 4 del mattino del 26 luglio, i poliziotti si sono presentati a casa sua a Palermo, con un ordine di perquisizione della procura della Repubblica del tribunale di Reggio Calabria. Ad aprire la porta hanno trovato Bruno Contrada, 86 anni, Capo della Mobile di Palermo ed ex numero 2 del Sisde, 10 anni scontati tra carcere e arresti domiciliari per un’accusa di concorso in associazione mafiosa poi revocata da una sentenza di Cassazione del luglio di quest’anno.
Che cosa ha pensato, quando ha sentito suonare il campanello alle 4 del mattino?
Ero a letto con mia moglie, immobilizzata ormai a tre anni e cardiopatica. La Polizia ha citofonato e, quando si sono presentati, il mio debole cuore ha sobbalzato. Sa, io ho due figli: in quel momento ho pensato che era successo qualcosa a uno di loro. Fino a quando non sono saliti, mi ripetevo «Si tratta di Antonio o di Guido?». Solo quando mi hanno mostrato quel foglio intestato Procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria, Direzione Nazionale Antimafia, mi sono un po’ rasserenato.
Come ha fatto a rassicurarla il pensiero che la Procura di Reggio cercasse proprio lei?
Mi ha calmato il pensiero che i miei figli stessero bene. Subito dopo è subentrato l’interrogativo: perché? Era così lontana da me l’idea che potessi ricevere un ordine di perquisizione da Reggio Calabria. Lei deve sapere che io non ho mai prestato servizio in Calabria nè conosco nulla di quella regione. Nella mia carriera professionale mi sono occupato di crimine organizzato e di mafia, ma mai di fatti di ‘ ndrangheta.
E quando ha letto l’ordine di perquisizione lo ha capito?
Leggendo, ho visto che la perquisizione veniva effettuata nel quadro di indagini su fatti di mafia e di ‘ ndrangheta risalenti agli anni Novanta, in particolare con riguardo all’omicidio di due carabinieri nel 1994.
Lei ricorda quei fatti?
Ne ho avuto notizia quando ero detenuto in custodia cautelare nel carcere militare e so ciò che sanno tutti i cittadini che in quel periodo leggevano i giornali. Voglio ricordare che dalla vigilia di Natale del 1992 al 31 luglio del 1995, per trentuno mesi e sette giorni, io sono stato detenuto: per sedici mesi a Forte Boccea e per 15 mesi e sette giorni nel carcere militare di Palermo. A Palermo hanno addirittura riaperto una struttura dismessa da anni esclusivamente per me, per ricavarci una sola cella per la mia prigionia e i locali per il comando e per gli alloggi dei vigila- tori, trasferendo appositamente 25 uomini dell’organizzazione penitenziaria militare.
Quindi lei non sa nulla? Si parla di una sua connessione con Giovanni Aiello, soprannominato “faccia di mostro”, implicato nelle stragi degli anni Novanta.
Io so solo che la procura sta indagando sui collegamenti tra mafia e ‘ ndrangheta e che la perquisizione è stata disposta per un presunto mio rapporto con Giovanni Aiello risalente a circa 40 anni fa, quando dirigevo la squadra Mobile di Palermo, dal 1973 al 1976. In quegli anni Aiello prestò servizio per circa otto mesi e io lo ricordo vagamente: era uno dei tanti. Io con Aiello non ho mai avuto rapporti, nè personali, nè telefonici, nè tantomeno epistolari.
E quindi per questo è stata disposta la perquisizione...
Sì, per il fatto che io ero dirigente della Mobile quando lui era stato lì. Le aggiungo che la Polizia ha perquisito anche casa di mio fratello, a Napoli, dove ho ancora la residenza anagrafica. Anche lì sono piombati alle 4 del mattino, spaventandolo moltissimo: mio fratello ha 80 anni ed è anche lui molto malato.
E hanno trovato qualcosa?
A casa mia l’esito della perquisizione è stato negativo. Hanno cercato fino alle 7 del mattino, io li ho solo pregati di non fare troppo rumore per non svegliare mia moglie, che era sotto effetto di tranquillanti. Si sono concentrati sul mio archivio, in cui conservo le carte di 25 anni di processo e una raccolta stampa di migliaia di giornali. A casa di mio fratello, invece, hanno sequestrato qualche giornale.
Che tipo di giornali?
Dei ritagli che parlavano di me nei primi tempi della mia carcerazione. Uno parlava di una perizia che mi era stata fatta, dove il consulente del tribunale, il primario della cattedra di psichiatria di Palermo, aveva stabilito che non era il caso che io venissi rimesso in libertà dalla custodia cautelare perchè, essendomi abituato al carcere, la libertà mi avrebbe creato uno squilibrio psicologico e sarei andato incontro a un trauma. Un fatto che suscitò l’indignazione del professore e psichiatra Cassano, dell’università di Pisa: quando ne venne a conoscenza telefonò a mio figlio per dirgli che avrebbe preso il primo volo per Palermo per farmi una nuova perizia, perchè non poteva accettare che si stabilisse che un uomo al quale viene ridata la libertà possa andare incontro a un trauma.
Insomma, non hanno trovato nulla.
Ma che cosa dovevano trovare? Io gli ho anche detto di dirmi che cosa cercavano e che gli avrei messo tutto a disposizione. Tuttora non ho capito il perchè di questa perquisizione: il contesto calabrese non è il mio, non è quello in cui ho operato e non è quello per cui ho subito la carcerazione e i processi.
E ora che cosa succederà?
Mi creda quando le dico che non so nulla di questa inchiesta calabrese. Non so neppure se sono indagato, persona informata dei fatti, sospettato... Ora l’avvocato se ne sta occupando e io cerco di riordinare le idee e di fare ricorso ai miei ricordi. Lei immagini quanti agenti, quanti carabinieri e quanti criminali un poliziotto ha conosciuto in 20 anni di squadra Mobile, 6 di Criminal Pol e altri 4 nell’Alto commissariato per la lotta contro la mafia e per 10 anni nei servizi di sicurezza, fino al mio arresto.
E come si sente, ora, dopo la perquisizione?
Secondo lei cosa deve pensare un uomo che ha combattuto per un quarto di secolo in un processo, che ha ottenuto una sentenza della Cedu che stabilisce che non solo non doveva essere condannato ma nemmeno processato, e che dopo tutto questo si vede irrompere la polizia in casa alle 4 del mattino? Sono turbato e confuso, con un interrogativo martellante: Che cosa vogliono da me?
Dopo la perquisizione è stato convocato?
No, nessuno mi ha chiamato per chiedermi se mai avessi avuto rapporti con questo Aiello. Anche per questo mi chiedo che bisogno c’era di fare questa perquisizione, ben sapendo tra l’altro che sarebbe poi andata su tutti i giornali.
Dopo tutto questo, rifarebbe tutto ciò che ha fatto nella sua vita in Polizia?
Se dovessi pentirmi del mio passato dovrei dichiarare il fallimento della mia vita. Io sin da ragazzino quando ero un balilla mi sono considerato un uomo dello Stato: nei bersaglieri ho giurato fedeltà alla bandiera e alla Repubblica, poi nella Polizia di Stato ho giurato un’altra volta. Sono sempre stato un servitore dello Stato e delle sue istituzioni. Posso dichiarare io il fallimento di questa vita? Io ho fatto il poliziotto per passione, perchè ho sempre voluto servire la Patria, difendendo l’ordine e la sicurezza pubblica.
Ma si immaginava, a 86 anni, di dover combattere contro questo stesso Stato?
Nei primi anni Ottanta temevo che qualcuno mi avrebbe sparato quattro colpi di pistola, come fecero con il mio collega e amico fratello Boris Giuliano, che fu ucciso a tradimento da un criminale. Ecco che cosa mi aspettavo. Non certo di venir colpito dalla calunnia, un veleno che forse è anche più atroce del piombo.