Stefano Cagliari è il figlio dell’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, aveva 35 anni quando suo padre, accusato di avere autorizzato il pagamento di tangenti per fare aggiudicare una commessa alla Nuovo Pignone, venne arrestato il 9 marzo 1993 su ordine della Procura di Milano. Dopo 134 giorni trascorsi nel carcere milanese di San Vittore, la mattina del 20 luglio, Gabriele Cagliari decise di suicidarsi infilando la testa in un sacchetto di plastica. Due giorni prima si era sottoposto ad un ennesimo interrogatorio, ammettendo gli addebiti, davanti al pm Fabio De Pasquale, titolare del filone d’inchiesta sulle tangenti Eni-Sai. Secondo il legale di Cagliari, al termine dell’interrogatorio, il pm aveva promesso di mandarlo ai domiciliari. In realtà il giorno stesso aveva dato parere negativo alla scarcerazione ed era partito per le vacanze estive. Fu il colpo di grazie per Cagliari che, stanco e malato, scelse di farla finita per sempre.

Durante la sua permanenza in carcere, l’ex presidente dell’Eni scrisse una serie di lettere alla moglie, ai figli e agli amici per spiegare che non poteva più sopportare il trattamento disumano riservatogli dai magistrati. «Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, anche in quello che loro chiamano il nostro ' ambiente'.

La vita, dicevo, perché il suo ambiente, per ognuno, è la vita: la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui quali loro e i loro complici intendono mettere le mani. Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell’Amministrazione Pubblica o parapubblica, ma anche nelle Amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della Magistratura che è il sistema carcerario. La convinzione che mi sono fatto è che i Magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione, o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima. [...] Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni Procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima. [...] Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere».

Le lettere di Cagliari sono tremendamente attuali e mettono in luce come molto poco sia cambiato in questo quarto di secolo in tema di custodia cautelare, strapotere della magistratura, gogna mediatica, stato delle carceri.

Stefano Cagliari, architetto, attualmente è un imprenditore nel settore dell’energia con interessi nel ramo immobiliare e nella finanza, ha voluto raccoglierle in un libro, “Storia di mio padre”, curato dalla saggista Costanza Rizzacasa d’Orsogna ed edito da Longanesi. Oltre a ciò ha creato il sito gabrielecagliari. it dove sono liberamente consultabili i verbali degli interrogatori di suo padre. «Ritengo che ciò sia un dovere civile da parte mia, affinché chi ha vissuto quegli anni ripensi a quanto accaduto e dica ai suoi figli cosa è successo», afferma Stefano Cagliari. In questi venticinque anni ha rilasciato pochissime interviste. Questa è una di quelle. Troppo grande il dolore. Nel 1993, oltre al padre, Stefano perse la moglie 37enne, colpita da un tumore, e il fratello minore Silvano, morto di Aids. Dopo un lungo e faticoso lavoro su stesso, Stefano Cagliari ha deciso di riabilitare la figura del padre e accendere una luce su un periodo buio della storia del Paese.

Architetto, cosa ha provato nel rileggere dopo 25 anni queste lettere?

Riprendere in mano la storia di mio padre è stata un’operazione molto dolorosa.

Le lettere di suo padre offrono una visione tremendamente lucida del sistema giustizia italiano.

Mio padre pensava che con Mani pulite la magistratura stesse facendo un colpo di Stato, aprendo la strada a un regime poliziesco.

Il regime poliziesco non c’è, però la magistratura è diventata potentissima...

In quegli anni la magistratura diede un colpo fortissimo alla politica. E quando un potere perde importanza, altri prendono il suo posto. Fino agli anni 80 la politica gestiva anche la magistratura. Da allora non fu più così.

Come nasce Mani pulite?

È difficile pensare che tutto nasca all’improvviso nel 1992, dopo oltre trent’anni di gestione di un sistema, oliatissimo, basato sul rapporto Dc- Psi.

E allora?

La magistratura divenne molto aggressiva in quanto appoggiata dalla piazza. Il Paese soffriva una situazione difficilissima dove il debito avevo superato il Pil e la Lira era stata svalutata del 25%. E poi una serie di concause.

Tipo?

Il Psi dava fastidio a molti, soprattutto agli Stati Uniti. Il “salotto” buono dell’economia era cambiato. E molti imprenditori cercavano spazio.

A proposito di imprenditori, uno di questi, Silvio Berlusconi alle fine del 1993 decise di fondare Forza Italia.

Lo scopo primario di Berlusconi fu quello di difendere se stesso e le aziende dalle inchieste che, inizialmente, aveva appoggiato con le sue televisioni. Berlusconi capì per primo che gli italiani erano stanchi di questi arresti continui.

E la sinistra sconfitta reagì in maniera violenta.

Sì. Ci fu uno scontro di potere fortissimo che è durato vent’anni. Dove Berlusconi ha cercato in tutti i modi di limitare il potere della magistratura.

Ma non c’è riuscito.

Ha agito in modo troppo scoperto. Forse ha ragione Piercamillo Davigo quando dice che Matteo Renzi, su questo aspetto, è stato più bravo.

Per suo padre i magistrati avevano una missioni “salvifica” della società.

Gherardo Colombo, uno dei magistrati che indagò mio padre, ha scritto la prefazione del libro. E lui il primo ad affermare che la magistratura non può eliminare i fenomeni corruttivi con la sola repressione. Il problema è di tipo culturale.

Non tutti la pensano come Colombo. Da parte di molti c’è la richiesta di nuove pene e maggiore carcere.

Questa è una logica molto superficiale. Come scrisse mio padre, “il carcere è un moltiplicatore di malavita”.

Cosa non funziona in questo Paese?

Ci sono troppe regole, che si sovrappongono e si contraddicono. Oltre a favorire la corruzione, la conseguenza è che il burocrate cerca sempre di proteggersi avendo paura di cosa possa accadere. Il Paese è completamente ingessato.

Come funzionava il sistema delle tangenti in quegli anni?

Tutte le grandi aziende pagavano i partiti che allora avevano costi altissimi. Chi non pagava era fuori dalle stanze del potere. Le regole erano queste. Se dopo quindici giorni non avevi capito come fare, qualcuno veniva a spiegartelo.

I partiti avevano un peso fortissimo?

Certamente. Oltre ai soldi, volevano influenzare le scelte strategiche delle aziende. Ricordo che mio padre, pur essendo socialista, litigava spesso con Bettino Craxi.

Quando ha capito suo padre che il vento stava cambiando?

Mio padre capì subito cosa stava succedendo. Parlo del conflitto fra poteri. Da uomo Eni, cerco di salvare dalla tempesta, soprattutto quella mediatica, l’azienda. Penso, ad esempio, al filone sulle tangenti pagate all’Algeria. “Appena viene fuori una informazione del genere, questi rompono subito”, diceva.

Per avere le commesse era necessario pagare tangenti?

Il discorso è complesso. Pensiamo all’estero: le aziende italiane avevano, e hanno, competitor di alto livello, penso ai francesi, agli inglesi. In certi Paesi i rapporti si decidono in base alla qualità delle relazioni e alla fiducia reciproca. Siamo certi che Eni oggi, oltre a pagare tangenti, non paghi anche le milizie che difendono militarmente i pozzi? E come spendono i miliziani questi soldi? Questo è il mondo. Se lo si affronta con la visione del burocrate non si fa molta strada.

Bisogna fare “squadra” nell’interesse del Paese?

La magistratura applica la legge ma non sempre fa l’interesse del Paese. Ma, ripeto, il problema è essenzialmente culturale. Questo Paese sta in piedi grazie alle aziende che esportano. Non grazie ad uno Stato che spreme tutto il possibile e ai burocrati ottusi. Rischiamo di fare la fine degli abitanti dell’isola di Pasqua che, dopo aver tagliato tutti gli alberi, si sono estinti.

Ha mai pensato di fare politica?

Sono rimasto molto scioccato da quanto è successo. E ho sempre temuto che la figura di mio padre potesse essere strumentalizzata. Comunque nessuno mi ha mai chiesto nulla.

Non crede agli imprenditori prestati alla politica?

L’imprenditore è una persona capace di gestire le aziende. Un decisionista. La politica è mediazione, equilibrio, penso servano altre caratteristiche. Poi bisogna rimanere sempre con i piedi per terra. Il potere è una droga.