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«Mi dicevano di chiudere le gambe». Amra, 24 anni, quattro figli, una vita nel campo nomadi di Castel Romano, è la donna che lo scorso 31 agosto ha partorito una bambina nel penitenziario di Rebibbia a Roma, grazie all’aiuto della compagna di cella Marinella. La giovane ha raccontato quei momenti di paura in un’intervista a Repubblica. «Questa cosa la faccio solo perché nessuno deve vivere ciò che ho vissuto io, nessuna donna dovrebbe partorire in carcere», ha spiegato Amra, assistita dall’avvocato Valerio Vitale. «Sono stata arrestata il 22 giugno. Ero incinta di sei mesi e mi hanno portata in ospedale. I poliziotti erano gentili e in commissariato ci hanno dato da bere e mangiare. Il giorno dopo però mi hanno accompagnata in tribunale e dopo la decisione del giudice sono arrivati i poliziotti vestiti di blu e mi hanno portata in carcere, nel reparto cellulare, dove ci sono piccole celle». La donna è stata ricoverata in ospedale per alcune perdite e poi di nuovo trasferita a Rebibbia, questa volta in infermeria. «Avrei preferito 6 mesi negli altri reparti piuttosto che un giorno in infermeria. Ero da sola in cella, le altre urlavano, una ragazza sbatteva la testa contro il muro, un’altra si strappava i peli e li mangiava. Una donna diceva che avrebbe ucciso mia figlia non appena fosse nata. Io piangevo sempre. Poi il 9 luglio è finito l’isolamento covid e hanno portato la mia amica Marinella, era stata arrestata con me». La sera del 31 agosto, dopo giorni di contrazioni, Amra comincia a stare male. «Avevo mal di testa e di pancia, mi hanno dato una tachipirina. Era passata anche l’assistente, le avevo detto che stavo male ma è andata via. Non ho mai pianto così tanto, avevo paura per la mia bambina. Avevo troppo dolore. Marinella allora ha iniziato a suonare. L’assistente ha detto: “Chi è che suona a quest’ora? cosa volete? Ora arrivo”. Era tutto buio, l’assistente è arrivata fuori dalla cella ma non mi credeva, voleva andare via. Marinella ha urlato: “Non ci lasciare”. Mi dicevano di chiudere le gambe, ma Marinella mi ha detto di non farlo perché il bambino poteva soffocare. Poi ho messo la mano sotto e ho sentito la testa, avevo paura cadesse per terra e mi sono sdraiata. È nata da sola e non piangeva». È stata la compagna di cella a pulire il viso della bambina dalla placenta a mani nude, consentendo così alla piccola di piangere e respirare. Dopo il parto, la giovane è stata trasferita in ospedale e ora sconta la condanna a casa. «Non ho sogni - ha detto - desidero solo che i miei figli abbiano un futuro diverso dal mio».