«Per ridurre l’arretrato una strada c’è: concentrarsi sull’organizzazione delle Corti d’Appello». A dirlo in modo chiaro è il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani, riprendendo i risultati del convegno “Il ruolo e la riforma del giudizio di appello in Italia”, tenutosi a Roma a fine marzo e al quale hanno partecipato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, il presidente del Cnf, Andrea Mascherin, il vicepresidente del Csm, David Ermini, i principali dirigenti del ministero e soprattutto 15 presidenti di Corti d’Appello e numerosi procuratori generali.

Presidente, una platea che si è trovata concorde negli esiti del dibattito?

Tale partecipazione, soprattutto da parte dei presidenti delle Corti d’Appello, non era affatto scontato e la reazione unanime è stata quella di apprezzamento, perché finalmente si è discusso in modo franco dei problemi delle corti. Il tema cardine è stata la centralità dell’appello e tutti hanno convenuto sul punto centrale: l’appello è il collo di bottiglia, è la fase in cui i processi durano di più, rispetto al primo grado e alla Cassazione. In una parola, è il nodo della lentezza della giustizia, ma curiosamente fino ad oggi nessuno si è interrogato su questo.

Quando comincia questo effetto “collo di bottiglia”?

Ce lo dicono i numeri: quando, nel 1998, si è soppresso il collegio nella maggior parte dei processi civili e penali di primo grado, con la creazione del giudice monocratico. In questo modo, si è triplicata la produttività dei tribunali, senza però toccare organizzazione e organici delle Corti d’Appello, che hanno accumulato arretrato.

Esiste qualche numero?

Sì, ma con un problema di fondo: i sistemi di rilevazione statistica considerano i processi delle pendenze statiche, non dei flussi. Tradotto: si analizzano i singoli gradi, senza percepire l’intreccio. Le do qualche dato, a partire dal penale: a Roma, il 50% dei processi si prescrivono in appello. Più in generale, le Corti di Roma e Napoli sono le due grandi malate d’Italia: insieme, detengono il 30% dell’arretrato. Se a loro si sommano altre cinque corti - Bologna, Torino, Firenze, Bari e Palermo - si arriva al 50%.

Cosa vuol dire questo?

Che, con interventi mirati su pochi uffici e su alcune corti, si potrebbe fare moltissimo per risolvere il problema.

Quali interventi auspicherebbe?

Abbiamo un organico di magistrati insufficiente, gravato per altro dal fatto che dalle corti di Napoli e Roma il ministero spesso attinge per chiamare magistrati a funzioni non giurisdizionali. A questo si aggiunge la mancanza cronica di personale, che è gravato non solo di incarichi di cancelleria ma anche di compiti amministrativi e paragiurisdizionali. Ciliegina sulla torta: il ministero ha passato alle Corti d’Appello le competenze per la gestione degli uffici giudiziari. Questo significa che la Corte deve occuparsi anche della gestione immobiliare, senza avere geometri ed esperti in organico. Risultato: il personale amministrativo di Roma conta 300 persone, più di 90 si occupano di attività che non ha nulla a che fare con la giurisdizione.

Come si interviene, dunque?

Serve un cambio di atteggiamento culturale, prima di tutto. Bisogna che si capisca che, se la riforma della giustizia parte dalle Corti d’Appello, si riuscirà a far funzionare meglio tutta la macchina. In sintesi: bisognerebbe sgravare le Corti di impegni ultronei, come quelli sull’edilizia giudiziaria, e predisporre interventi organizzativi, che consentano di gestire l’arretrato in modo efficiente.

Il ministero, per ora, sembra più concentrato sui tavoli per la riforma del rito civile e penale.

Ne sappiamo poco, perché il ministro ha fatto poche anticipazioni e gli studi sono in fase preliminare. Il nostro timore riguarda principalmente il processo civile: sembra che l’intenzione sia di istituire un unico rito, simile a quello del Lavoro, da instaurarsi con ricorso. Non c’è contrarietà aprioristica, ma io non credo che da questo deriveranno vantaggi sul fronte dell’arretrato. In questo momento gli interventi processuali non sono necessari, anche se alcuni potrebbero essere utili, almeno in astratto.

Perché?

Perché i ritardi non nascono dal processo, ma dal fatto che non ci sono risorse sufficienti. Servono più uomini, mezzi e locali: in una parola, spendere di più per le Corti d’Appello. Una riforma del processo, invece, porta con sé ulteriori incertezze, eventuali ritocchi successivi e dubbi giurisprudenziali, quindi un periodo di incertezza successivo alla sua entrata in vigore. E, mi sembra, su questa linea si colloca anche l’avvocatura.

Il Ministero ha annunciato assunzioni, per coprire i buchi di organico.

Il Ministero assumerà 7.000 impiegati in tre anni e che circa 200 saranno tecnici per l'edilizia giudiziaria. Questo è positivo, ma bisogna vedere le piante organiche e la distribuzione del personale, prestando attenzione alle esigenze di ogni singola corte. Per questo abbiamo bisogno dell’avvocatura come partner, per sensibilizzare sul tema e monitorare l’iter.

A proposito di avvocatura, può svolgere un ruolo?

Lo diceva bene il consigliere Cnf, Andrea Pasqualin: l’organizzazione degli uffici è un fatto interno, ma se si riflette sul processo anche l’avvocatura deve essere coinvolta. Noi magistrati siamo contenti che gli avvocati si uniscano a noi in questo dibattito, perché significa portare una voce più forte al ministero, esprimendo indicazioni che portino maggiore attenzione sul processo di appello.

E dal punto di vista operativo?

Io credo nelle buone prassi: bisogna lavorare insieme per evitare rinvii a vuoto e favorire la concentrazione nella trattazione. Avvocati e magistrati sono due facce della stessa medaglia e anche loro sono contenti se le cause vengono trattate e non si rinviano, ma per farlo servono prassi condivise e virtuose. Le cito, per Roma, l’attività sperimentale dell’Ufficio del processo in una sezione civile, dove si lavora con la pre- camera di consiglio e il collegio tratta l’udienza già conoscendo il fascicolo. Il risultato è stato un aumento della produttività del 40%.

Dal suo osservatorio privilegiato, percepisce un calo di fiducia nella giustizia da parte dei cittadini?

Le riporto un dato piccolo, ma significativo: sovente ricevo lettere di cittadini che mi scrivono, “Ho 80 anni e vorrei vedere la fine della mia causa prima di morire”. Cosa si risponde a una lettera così, quando si sa che tra la prima udienza e quella di precisazione conclusioni il tempo medio è tre anni? Non c’è risposta. Per provare a darla, bisogna cambiare l’organizzazione, aumentare le risorse e iniziare a lavorare in modo diverso. Si può fare, ma serve un’iniziativa ministeriale forte.