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Cassazione
Sorteggio? Leggi elettorali sofisticate? No: la riforma del Csm non si gioca sul sistema di voto per i togati. Lo snodo decisivo è un altro: rendere più credibili le cosiddette “valutazioni di professionalità” dei magistrati. Finora se n’è parlato poco: di certo non al vertice di quattro giorni fa tenuto dalla ministra Marta Cartabia con i partiti di maggioranza. Eppure, come ricorda per esempio l’Ucpi, per governo e Parlamento la sfida più difficile riguarderà l’introduzione di criteri più rigorosi nei giudizi sulla carriere delle toghe, giudizi che tuttora restano positivi per ben oltre il 90 per cento della magistratura. È chiaro che concorrono più fattori. Da una parte la guardasigilli, che di qui a pochi giorni illustrerà alle forze di governo il pacchetto di emendamenti con cui intende rimodulare il testo originario, firmato da Alfonso Bonafede. Dall’altra appunto i partiti, che hanno già depositato i loro emendamenti nella scorsa primavera e che hanno ancora margini per orientare la linea di via Arenula. La prima mossa tocca a Cartabia. Che considera le ipotesi della commissione Luciani, da lei incaricata di formulare una proposta complessiva di restyling del ddl Bonafede, solo un punto di partenza. È molto probabile che gli emendamenti della guardasigilli siano alla fine un po’ meno benevoli, nei confronti delle toghe, rispetto a quanto suggerito dal gruppo di esperti. I quali su diverse materie del ddl hanno seguito una linea più misurata rispetto allo stesso testo originario, a cominciare dalle norme sui magistrati che entrano in politica. Ma persino nella relazione Luciani c’è un pur minimo tentativo di cambiare passo sulle valutazioni di professionalità. Nella risposta data da via Arenula all’interrogazione di Enrico Costa, la percentuale dei “promossi a pieni voti” è al 92 per cento, un po’ più bassa rispetto al passato, ma comunque altissima. La commissione di esperti suggerisce, intanto, di fare chiarezza sui giudizi che, nei confronti dei magistrati, arrivano dagli uffici in cui hanno lavorato. Anche quando si deve esaminare il curriculum di una toga che aspira a presiedere un Tribunale o guidare una Procura, si dovrà «assicurare ai procedimenti di valutazione risultanze istruttorie più ampie e sicure», si legge nella relazione Luciani. Che segnala, in particolare, «la possibilità di acquisire i pareri redatti dai dirigenti ai fini delle valutazioni di professionalità dei magistrati dell’ufficio, affinché ne siano verificate l’effettività e attendibilità». Si introduce insomma almeno un principio dubitativo sui meccanismi “autodifensivi” dell’ordine giudiziario. Gli esperti chiamati dalla ministra provano a sciogliere in modo semplice il nodo dei giudizi tutti impeccabili: «L’articolazione del giudizio positivo in discreto, buono o ottimo quanto alle capacità organizzative». Un piccolo passo avanti. Si capirà chi ha qualche limite quanto meno dal punto di vista del coordinamento. Ma è chiaro che non basta. E anche se nell’ultimo vertice non se n’è parlato, è certo che sulle valutazioni di professionalità sta per iniziare una delle partite più tese. Diversi partiti hanno presentato, ad esempio, proposte per far discendere conseguenze, sulle valutazioni di professionalità, da un numero eccessivo di richieste (dei pm) o ordinanze (dei gup) di rinvio a giudizio seguite da insuccessi processuali. Nella scorsa primavera hanno depositato emendamenti con proposte simili non solo Forza Italia e Azione, ma anche Italia viva e, cosa forse sorprendente, il Pd. E quasi l’intera maggioranza, dalla Lega, a FI al partito di Calenda e agli stessi dem, è d’accordo sul riconoscimento, nei Consigli giudiziari, del diritto di voto agli avvocati (e agli accademici) anche sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. Non a caso la proposta è tra quelle su cui radicali e Lega hanno indetto i referendum. E che si tratti di un passaggio utile a evitare giudizi generosi anche per i giudici dalle performance non proprio impeccabili, lo conferma un passaggio della stessa relazione Luciani. La commissione di esperti non ha proposto alla ministra il diritto di voto ma solo il “pieno diritto di parola” (che però era già previsto dal testo Bonafede). Eppure, nell’illustrare le ipotesi di emendamento, il gruppo di lavoro ha indicato «il rafforzamento delle garanzie partecipative per l’avvocatura (anche con la conseguente uniformazione di prassi, allo stato, discordanti)» tra le «proposte emendative, relative alle valutazioni di professionalità» che si ritiene siano«tuttora di sicura importanza». Gli esperti non possono fare a meno di riconoscere che un maggior peso dall’avvocatura aiuterebbe a superare il paradosso di un ordine giudiziario con pochissimi casi di rendimento non positivo. Il nodo è determinante: lo segnala un incisivo intervento firmato sul Riformista di ieri da Giuseppe Di Federico. Che tra l’altro scrive: «La grande maggioranza dei pochi magistrati che il Csm non valuta positivamente sono quelli che hanno ricevuto gravi sanzioni disciplinari, a volte connesse a procedimenti penali». Viene giudicato male, insomma, solo chi arriva addirittura a commettere reati. Di certo, mettere in discussione la tetragona impermeabilità della magistratura all’autocritica funzionale è il terreno su cui si misurerà la capacità dei partiti di riconquistare il primato nel gioco democratico, smarrito dai tempi di Mani pulite. Più che sul sorteggio dei togati o sulle porte non più girevoli ma sbarrate ai pochissimi giudici candidati in Parlamento, la riforma del Csm dovrà mostrarsi coraggiosa proprio con l’intromissione della politica nella perenne autodifesa della magistratura.