La Liberazione dal nazifascismo e quindi la fine dell’autoritarismo coincidono inevitabilmente con il declino graduale di un modello di carcere tipico delle dittature: un luogo senza limiti al dominio del potere, dove l’esistenza dei diritti fondamentali è negata. Il lento processo di costituzionalizzazione, tra alti e bassi, fatica ancora oggi a compiersi pienamente e conserva l’eco di quella visione fascista in cui, in carcere, il potere non solo è legittimato, ma è chiamato a rivelare il suo volto più spietato.

L’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo non è solo una celebrazione della riconquistata libertà, ma un monito a interrogarsi sulle istituzioni che, come il carcere, hanno resistito al cambiamento. Se la dittatura cadde nel 1945, il suo dna autoritario continuò a pulsare nelle celle, nei regolamenti, nella filosofia stessa della pena. Il carcere fascista, figlio del Codice Rocco e del Regolamento del 1931, sopravvisse alla guerra, alla Resistenza, alla nascita della Repubblica, diventando un simbolo di continuità tra due Italie apparentemente opposte. Per arrivare a un cambiamento, bisognerà aspettare il 1975 con la prima riforma dell’ordinamento penitenziario.

Negli anni Venti, i tentativi di ammodernamento dell’ordinamento carcerario — avviati durante il primo dopoguerra — subirono un brusco stop. Con il regio decreto del 5 aprile 1928, la “Direzione generale delle carceri e dei riformatori” divenne “Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena”. Arrivarono il Codice penale, firmato da Alfredo Rocco nel 1930, e il nuovo regolamento carcerario del 18 giugno 1931: una traduzione in carne viva dell’ideologia mussoliniana, destinata a tener banco fino al 1975.

Il regolamento carcerario del 1931 poggiava su uno schema inflessibile di punizioni e premi, elencando nel dettaglio qualsiasi infrazione e la sanzione corrispondente. Erano proibiti e puniti, ad esempio, i reclami collettivi, il contegno irrispettoso, le parole blasfeme, i giochi, il possesso di carte da gioco, i canti, il riposo in branda durante il giorno senza motivo, il rifiuto di partecipare alle funzioni religiose, persino il possesso di un ago o di un mozzicone di matita, o la lettura di testi politici o con immagini di nudo.

Agli ergastolani era consentito scrivere non più di due lettere a settimana ai familiari, sempre a paglia e matita in custodia delle guardie; la stessa persona non poteva riceverne più di una. Diventava obbligatorio indossare la divisa del carcere – a righe per i condannati definitivi – e presentarsi in piedi, con la branda perfettamente rifatta, ogni volta che le guardie entravano per la conta. I giornali politici erano banditi, e ogni quotidiano o settimanale ammesso veniva pesantemente censurato. I colloqui con i parenti avvenivano dietro reti metalliche, sempre sotto orecchio di un agente.

Le punizioni spaziavano dall’ammonizione del direttore all’isolamento in cella, con sanzioni come il divieto di fumare, di scrivere, di lavarsi o di radersi per giorni, la sospensione dei colloqui, il ritiro del pagliericcio, fino al “letto di contenzione”, alla camicia di forza e alla cella imbottita. Molte violazioni scatenavano anche denunce penali, con conseguente allungamento della pena. Gli “incentivi” si limitavano all’accesso al lavoro interno o al trasferimento in un carcere aperto. Ogni detenuto veniva schedato in una “cartella biografica” che raccoglieva non solo il suo comportamento in carcere, ma ogni dettaglio della vita familiare: precedenti penali, casi di pazzia, alcolismo, sifilide, suicidio o prostituzione tra i congiunti, condizioni economiche e, ovviamente, le idee politiche di ciascun parente.

A questa stretta sorveglianza seguì, il 9 maggio 1932, la legge n. 527, composta di soli cinque articoli sui lavori dei detenuti, sulla ristrutturazione edilizia, sulla contabilità carceraria e sull’assistenza. Mancando un piano di finanziamento dedicato, i lavori edili vennero affidati ai modesti stanziamenti del ministero dei Lavori pubblici, insufficienti a risolvere i problemi strutturali. Il carcere non era più luogo di redenzione, ma di annientamento. Ogni detenuto, politico o comune, diventava un numero, un corpo da piegare.

Le carceri in fiamme

La fine del fascismo viene sancita anche da evasioni e rivolte carcerarie. Come si apprende dal libro “Camosci e girachiavi: Storia del carcere in Italia” di Christian G. De Vito, nel luglio del 1943, a Torino, 300 evasi dalle Nuove; a Milano, i colpi dei fucili in San Vittore; a Roma, sangue a Regina Coeli; a Bari, 19 morti sotto il fuoco dell’esercito. Le carceri esplodevano, specchio di un Paese in lotta.

I partigiani liberavano detenuti politici, come a Spoleto e Belluno, mentre l’ 8 settembre 1943 segnava l’inizio di una nuova resistenza dietro le sbarre. Ma la Liberazione non portò la rivoluzione attesa. Il 22 luglio 1945, a Regina Coeli, centinaia di detenuti si ribellarono chiedendo amnistia e dignità. Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia, visitò il carcere romano promettendo riforme: «Qui non c’è un carcere, ma un campo di concentramento». Ma subito dopo l’apparente simpatia dispose circolari e decreti che irrigidirono la disciplina. La disposizione del 14 agosto 1945 invocava “ordine e disciplina” e vietava la libera circolazione dei detenuti; il decreto del 21 agosto militarizzava il Corpo degli agenti di custodia, cementando un’anima militare nel sistema penitenziario. La disciplina degli agenti, già severamente definita dal Regolamento del 1937, ne risultò rafforzata.

La repressione di Togliatti

Scoppiarono proteste e la repressione si abbatté. Della stessa rivolta di Regina Coeli, Togliatti diede in pubblico una lettura opposta a quella che aveva potuto riscontrare nei fatti: la descrisse come una protesta organizzata da elementi fascisti e volta al sovvertimento del nuovo Stato democratico. Così avvenne anche per la rivolta di Pasqua del 1946 a San Vittore (definita “La Pasqua rossa”), nel corso della quale rimasero uccisi quattro detenuti e un giovane agente penitenziario, che con il suo intervento bloccò i reclusi e permise l’arrivo dei rinforzi, circa un migliaio tra poliziotti, carabinieri e militari. Al termine, il carcere risultò completamente distrutto, oltre 100 detenuti rimasero feriti e tutti i reclusi ritenuti responsabili furono trasferiti in massa in altri stabilimenti penitenziari.

Per un vero cambiamento contro le logiche autoritarie ereditate dal fascismo, ci volle la riforma penitenziaria del 1975, la quale introdusse principi di trattamento rieducativo, abolendo la sorveglianza militare diretta e privilegiando opzioni alternative alla detenzione. Ma nei fatti le carceri nostrane soffrono ancora di quel retroterra culturale.

Oggi, con il decreto sicurezza, soprattutto con l’introduzione del reato di rivolta, persino passiva, sembra evocarsi un ritorno al passato. Ma in questi 80 anni, dalla Liberazione a oggi, la passività di fronte a un potere che lascia morire in carcere, mentre produce sempre nuovi casi di “morte viva” (ergastoli e perenni proroghe del 41 bis con tanto di abusi puntualmente condannati dalla Corte Europea), equivale a un tradimento della Costituzione.

All’ombra di mura antiche – concepite per isolarci dagli “altri” – si gioca ancora oggi la sfida più delicata di una democrazia: proteggere la società senza cancellare le persone. Se è vero che il carcere deve servire a rispondere a un danno, non a perpetuare la sofferenza, resta aperto il compito di chiudere davvero con un passato di umiliazioni e controlli asfissianti. Nel ricordare chi, ieri, ha varcato le sbarre della libertà con la forza delle proprie idee, l’impegno di una democrazia matura è rimettere al centro la persona, ostacolare la riproposizione di logiche autoritarie e spingere perché le mura non siano più sinonimo di annullamento, ma di possibilità di rinascita.