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«Ora che ritengo siano altri gli ideali da seguire, quell’etichetta continua a “perseguitarmi”. Per tutti resto il bandito». Renato Vallanzasca lo scriveva lo scorso anno, in una lettera indirizzata al Tribunale di Sorveglianza di Milano. Era giugno, pochi giorni prima che i giudici decidessero l’attualità di quell’etichetta, sperando di ottenere la liberazione condizionale o la semilibertà. Parole che non avevano colpito nel segno allora e che anche mercoledì scorso ha lasciato indifferenti i giudici della Cassazione, che hanno respinto il ricorso presentato dal suo avvocato, Paolo Antonio Muzzi. Non si è mai pentito, non è mai cambiato, per loro, il “bel René”, che dovrà dunque rimanere dietro le sbarre. «Infelice», secondo i giudici, è stata l’esperienza della semilibertà, interrotta dall’arresto in flagranza per rapina. Le relazioni più recenti avevano evidenziato il desiderio di riprendere il percorso di «mediazione penale», il suo isolamento nell’ambiente carcerario, i problemi di salute, l’indebolimento del suo rapporto affettivo con una donna estranea agli ambienti criminali, concludendo per l’utilità di concedere la liberazione condizionale o la semilibertà per proseguire il suo percorso di rieducazione. Ma per i giudici quel ravvedimento richiesto non esiste. Vallanzasca non si è mai davvero pentito e dunque deve rimanere in carcere, a 71 anni, con quattro ergastoli, 295 anni di reclusione. Un percorso penitenziario altalenante, quello del “bandito della Comasina”, con «involuzioni trasgressive» imputabili alla sua «personalità» e al suo mancato affrancamento «dalla subcultura originaria e mai approdata a una reale riabilitazione sociale». Non ha mai risarcito le vittime, né fatto nulla per «ottenere il perdono o alleviare le loro sofferenze». Troppe le «contraddizioni», senza mai arrivare ad un «definitivo ripudio del passato stile di vita e l’irreversibile accettazione di modelli di condotta normativamente e socialmente conformi». Vallanzasca è stato rimproverato per aver scelto il silenzio nei confronti delle sue vittime, preferendo «non confrontarsi con la dolorosità del male arrecato». Una scelta che l’ex bandito, che ha ispirato film e band musicali, aveva spiegato nella sua lettera. «Non di rado mi son sentito rimproverare da destra a manca, di aver il più delle volte sottaciuto alle mie vittime e torno a dire per l’ennesima volta che la mia è stata una decisione mirata proprio perché trattasi del silenzio che si deve come il massimo rispetto per le vittime! Non ci sono parole dignitose. Non ci possono essere parole». Per i giudici, però, non ci sono segni di una «evidente ed effettiva resipiscenza». Ed il suo percorso sarebbe «inaffidabile», nell’ottica di «una sufficiente ri-socializzazione che consenta di fare nuovamente affidamento sulla capacità di rispettare le regole della convivenza civile». In carcere pressoché ininterrottamente dal 1981, dopo l’arresto seguito alla terza evasione, nel 2007 viene ammesso ai permessi di necessità e nel 2009, stabilmente, ai permessi premio. A marzo 2010 gli viene concesso il permesso di lavorare all’esterno, ma a dicembre dello stesso anno viene denunciato e condannato per reati commessi durante il controllo di polizia, con la conseguente revoca dei benefici, salvo l’autorizzazione a svolgere attività di volontariato. Nel 2013 viene ammesso per la prima volta al regime di semilibertà, beneficio revocato nel luglio 2014, dopo una rapina impropria commessa all’Esselunga, quando ruba delle mutande e reagisce all’arresto. Da lì le sue richieste di benefici vengono sistematicamente bocciate, l’ultima nel 2020. La corte presieduta da Carmen D’Elia, nel respingere la richiesta, aveva rimarcato la «pericolosità sociale», una «prematura e continua devianza che è accresciuta nel corso degli anni e lo ha accompagnato durante tutta la vita». E in polemica con tale posizione, il suo avvocato di allora, Davide Steccanella, decise di rinunciare alla sua difesa, esprimendo «amarezza» per la totale irrilevanza del suo lavoro, che lo aveva «indotto a rinunciare al mandato difensivo dopo cinque anni di sforzi e di impegni coadiuvato dal lodevole impegno e sforzo di operatori ed educatori del carcere» di Bollate, dove Vallanzasca è detenuto e «dai mediatori e ben due cooperative», il Gabbiano e la Cooperativa Sociale Opera in Fiore, che erano pronte ad ospitare l’ex bandito. Sforzi che erano volti a fare in modo che «dopo 50 anni il detenuto potesse riacquistare, per quanto residuo potesse rimanergli, uno spiraglio di libertà, in armonia, si ritiene, con il nostro dettato costituzionale». Proteste cadute nel vuoto, come i tentativi di Muzzi di far riottenere a Vallanzasca i benefici persi. Secondo il legale, il Tribunale non aveva «valorizzato il complesso dei comportamenti» tenuti da Vallanzasca, sottolineando «un effettivo interessamento per le vittime» dimostrato dal «percorso di mediazione intrapreso con una “vittima a-specifica”», all’esito del quale «ha iniziato a comprendere che, oltre a sé, esiste anche l’altro, ovvero la sofferenza provocata attraverso le proprie condotte». I giudici, secondo l’avvocato, avrebbero valorizzato soltanto il suo passato, quello iniziato all’età di 7 anni, quando «cominciai a far parlare di me per aver liberato un nugolo di animali dallo zoo/circo Medini - scriveva nella sua lettera -. Da quel momento, quello che avrebbe potuto sembrare un gioco un tantino sopra le righe di un turbolento fanciullo è diventato poi uno stile di vita. I falsi miti, la forza che mi sembrava di dimostrare al mondo intero, i soldi facili. Allora era ed ero proprio così. Ora tutto sembra diverso da quest’ottica, dallo sguardo di un uomo di 70 anni che ripensa agli errori da un’ennesima galera». Alle spalle una “carriera” a capo della Banda della Comasina, dedita a furti e rapine, che lo fanno diventare ricco. Ma anche omicidi, sequestri di persona, tre evasioni e decine di tentativi. Si sposa anche in carcere, nel 1979, sposa Giuliana Brusa, una delle sue tante ammiratrici. Nel 1983 finisce anche a processo con Enzo Tortora, accusato da alcuni pentiti di far parte della Nuova camorra organizzata, ma viene assolto. Dal 1999 è rinchiuso nella sezione dell’alta sicurezza del carcere di Voghera. «Di anni ne sono passati tanti, ma penso che nessuno possa credere che il tutto sia trascorso senza lasciare la ben minima traccia, il bambino del circo ha fatto il suo tempo, così come il bel René e non si può credere che un’intera vita tribolata possa non essere servita a crescere nulla - scriveva un anno fa -. E seppur nell’attuale silenzio, i pensieri sulla mia vita mi hanno accompagnato, così come la consapevolezza dei danni che le mie scelte hanno creato. A tutti. Il mio futuro ora potrebbe essere quello di un percorso in comunità, magari per poter essere utile a chi, più giovane di me, potrebbe trarre qualche giovamento dalla mia vita assurda». Ma ciò non avverrà.