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Scopelliti era un magistrato scomodo, quello che sosteneva in Cassazione la pubblica accusa contro gli imputati nel maxiprocesso contro boss e gregari della mafia. Fu ucciso il 9 agosto 1991 mentre era nel suo paese natio, a Campo Calabro, dove stava trascorrendo le vacanze, senza separarsi dai faldoni di quel processo. L’omicidio fu compiuto mentre si trovava a bordo della sua auto, un’Alfa Romeo 64, di ritorno dal mare, affiancata da una moto a bordo della quale si trovavano due sicari. «Quella di oggi - ha detto Bombardieri durante la commemorazione - è una cerimonia importante, sono passati tanti anni da quando un servitore dello Stato, un collega impegnato seriamente nel suo lavoro, è stato assassinato barbaramente, ed è un giorno ancora più importante perché possiamo dire che nelle indagini che la Dda di Reggio Calabria sta portando avanti abbiamo raggiunto e aggiunto un tassello importante. È un’attività della Dda in relazione alla quale, però, al momento non aggiungiamo altro - ha chiarito -. Ci sembrava doveroso dirlo oggi per rispetto alla memoria del collega e della sua famiglia». L’omicidio di Scopelliti è stato l’ennesimo tentativo compiuto dalla mafia per fermare il processo e condizionare i magistrati coinvolti. I mandanti e gli esecutori di quel delitto non furono mai individuati, ma lo scopo di Cosa Nostra non si realizzò: pochi mesi dopo, infatti, il Palazzaccio emise comunque le sentenze di condanna definitiva per i mafiosi alla sbarra. Il ritrovamento apre però ora «nuove e significative prospettive di indagine - ha affermato Bombardieri -, e al contempo sembra confermare recenti intuizioni investigative di questo ufficio». Il ruolo del magistrato nel maxiprocesso indirizzò subito le indagini in Sicilia, ma furono due esponenti della ‘ ndrangheta, Giacomo Lauro e Filippo Barreca, i pentiti “Alfa” e “Delta”, a svelare il patto fra la mafia calabrese e quella siciliana. l’omicidio di Scopelliti sarebbe stato il favore fatto dalla ‘ ndrangheta a Cosa Nostra per ripagare Totò Riina, che aveva mediato tra le famiglie di Reggio Calabria nel corso della lunga faida che ha insanguinato la città dello Stretto negli anni ‘ 80. Nel processo di primo grado fu imputato anche lo stesso Riina, che da latitante, nascosto da un abito talare, avrebbe raggiunto la Calabria per “benedire” la pax mafiosa dopo l’uccisione del boss Paolo De Stefano, avvenuta nell’ottobre del 1985, che aveva rotto i vecchi equilibri. Ma dopo la sentenza di condanna per 10 imputati, pronunciata l’ 11 maggio 1996, la Corte d’appello ribaltò tutto, non ritenendo concordanti le dichiarazioni dei pentiti, fra i quali Giovanni Brusca. Gli imputati vennero così assolti per non avere commesso il fatto, sentenza passata in giudicato il primo primo aprile 2012. Ma la versione dell’omicidio compiuto dai killer calabresi per conto di Cosa Nostra fu ribadita da altri pentiti, illuminando di nuovo la strada battuta dalla Dda.