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Antonio De Notaristefani, presidente dell'Unione delle Camere civili
I maxi emendamenti del governo alle leggi di conversione dei decreti sono sempre stati delle trappole: c’è un termine che scade, il tempo stringe, le trattative si fanno frenetiche, i lobbisti incalzano e, spesso, una manina (o una manona) fa un miracolo: un comma introdotto di soppiatto, e qualche amico riceve un auxilium. Questa volta, è stato dato in appalto al mondo della mediazione tutto il contenzioso post covid. Temo soprattutto quello bagatellare, purtroppo per loro: le imprese hanno tempi di reazione più rapidi, e spesso i loro problemi li avevano risolti già. Ma chi reputa di avere diritto ad un rimborso, piuttosto che ad un voucher, adesso dovrà pagare prima i costi della mediazione, quelli dell’avvocato che lo assiste in quella fase e poi, se non riesce, quelli necessari ad avere giustizia. Auguri. Non sono contrario alla mediazione; sono contrario alla imposizione di un costo aggiuntivo a carico dei cittadini. Pensate che la mediazione (chissà perché non anche la negoziazione assistita?) sia socialmente utile? Può darsi. Allora, incentivatela con la leva fiscale, come avete fatto con l’acquisto di biciclette o di monopattini elettrici, non ne imponete la obbligatorietà. Una condizione di procedibilità delle azioni giudiziarie può essere introdotta - sul punto, l’insegnamento della Corte costituzionale è fermissimo- solo se consente un più rapido soddisfacimento dell’interesse sostanziale dei cittadini. Provate a chiedere a loro quanto sono soddisfatti di questo costo aggiuntivo, imposto mentre la crisi svuotava i loro portafogli. Il settore delle conciliazioni assistite da tempo è ripartito in feudi cui si viene assegnati per obbligo di legge (che dire del diniego opposto alla negoziazione assistita in materia di lavoro? E l’Europa, troppo spesso invocata a sproposito da chi si autoproclama moderno, non definiva la mediazione come un procedimento che si svolge su base volontaria?). Pazienza, è sempre stato così. Ma quando si smette di cercare un accordo, e si chiede giustizia, allora privilegi e rendite di posizione devono scomparire. Giudici ed avvocati, insieme, hanno il dovere di renderla avendo come unico obiettivo l’interesse di quel popolo nel cui nome è amministrata: non sempre, in questa fase 2, ne ho visto la consapevolezza da parte di tutti, troppi rinvii. E se quella consapevolezza non sempre è racchiusa nel cuore degli uomini, occorre che quell’obbligo non resti più disarmato: è venuto il momento che, tra i giudici, venga premiato il merito, largamente diffuso tra chi è in prima linea, piuttosto che quella contiguità con il potere politico che troppo spesso ha fatto sì che fossero dei magistrati a delimitare i loro stessi obblighi all’interno dei processi civili. Non mi interessano, gli errori del passato: dobbiamo guardare avanti. Davanti a noi c’è, ci deve essere, la ripresa del nostro Paese e forse per la prima volta è possibile un intervento sulla giustizia che non sia a costo zero e non si traduca in una guerra dei poveri tra giustizia sanità e scuola, che dovrebbero essere i tre pilastri di una società moderna. Sembra che l’Europa abbia stanziato risorse imponenti ed abbia indicato che debbono essere investite anche nella giustizia: bisogna, per una volta, volare alto, ed investirle, non spartirle in proporzione alla capacità di pressione di ciascuno. È il momento di sopprimere privilegi e rendite di posizione. “Vaste programme”, rispose De Gaulle a chi proponeva la irrilevanza degli imbecilli. Aveva ragione. Ma per ripartire dopo una pandemia ci vogliono programmi vasti e non ci si può limitare alla gestione dell’esistente: per costruire una barca, bisogna insegnare agli uomini la nostalgia per il mare vasto ed infinito, non a trafficare con la pece o il legno, ci ha insegnato uno scrittore che è stato caro a tutti, quando eravamo ragazzi. *Presidente dell'Unione nazionale delle Camere civili