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Intanto è un lavoro notevolissimo. Non solo per l’ampiezza dell’esposizione, che fra premesse, emendamenti e note che li illustrano sfiora le 80 pagine, ma anche per il tempo ridotto in cui è stato terminato. La “Relazione” con le “proposte di emendamenti” alla riforma penale prodotta dalla commissione Lattanzi, e resa pubblica ieri dalla guardasigilli Marta Cartabia, è il frutto di un’opera compiuta in poco più di due mesi. Nelle poche settimane a disposizione, il gruppo di esperti guidati appunto dal presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi — e di cui hanno fatto parte figure di rilevo sia dell’accademia e dell’avvocatura, come il professor Vittorio Manes, sia della magistratura, come l’ex presidente Anm Rodolfo Sabelli — ha condotto uno screening sul ddl Bonafede, individuato i punti critici da migliorare, formulato in alcuni casi, come sulla prescrizione, anche due possibili alternative, esposto il tutto ai partiti lo scorso 10 maggio e messo infine ogni cosa nero su bianco. Le forze politiche di maggioranza dovrebbero trarne esempio quanto a rapidità, efficacia e chiarezza. Sono tre anni che si affannano, senza riuscire nell’impresa, per approvare una legge delega sul processo. Ora i saggi individuati dalla ministra Marta Cartabia ne offrono loro, su un piatto d’argento.
In realtà ieri dal ministero sono arrivate novità vere e proprie non tanto rispetto al contenuto della relazione Lattanzi, per grandi linee già esposta nel ricordato summit di maggioranza di due settimane fa, quanto sul significato politico del documento. «Le conclusioni del tavolo di studio sono state oggi consegnate alla ministra della Giustizia», premette la nota di via Arenula. Che poi puntualizza: «La guardasigilli effettuerà ora le sue valutazioni, prima di prendere decisioni in vista della presentazione degli emendamenti governativi al disegno di legge». Vuol dire che gli emendamenti enunciati al millesimo dagli esperti non saranno necessariamente le modifiche governative al ddl penale che di qui a qualche giorno Cartabia depositerà alla Camera. Eppure la levatura scientifica del contributo è tale che se la ministra decidesse di trasferirlo in gran parte nel proprio pacchetto di modifiche, sarà davvero difficile, per i partiti, trovare argomenti all’altezza per respingerlo.
Ecco, il senso è questo. Come anticipato in un’intervista al Dubbio dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, la forza della competenza si impone sugli slogan dei partiti. Un primo test sulla sproporzione di forze fra i due estremi della contesa sarà forse offerto stamattina dal vertice che la guardasigilli ha in programma con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle. I quali saranno a via Arenula per criticare innanzitutto due eventuali modifiche (ipotizzate dalla “Relazione”) al ddl penale di Bonafede: il ripristino della prescrizione e l’impossibilità per i pm di ricorrere in appello contro le assoluzioni. È chiaro che il punto critico è soprattutto il primo.
Cartabia discuterà con i pentastellati delle due ipotesi illustrate nella relazione Lattanzi. La prima consiste in un “recupero ponderato” della legge Orlando (datata 2017), con la sola variante della sospensione dopo la condanna in primo grado innalzata a due anni (era di un anno e mezzo), di uno stop di un anno secco dopo l’eventuale condanna in appello, con analoghi meccanismi per il giudizio di rinvio. La seconda ipotesi, come ormai noto, prevede che la prescrizione del reato si interrompa in ogni caso dopo l’esercizio dell’azione penale, dunque già alla richiesta di rinvio a giudizio, ma che poi il primo grado debba concludersi entro 4 anni, l’appello in 3 anni e il giudizio di Cassazione in 2 anni, altrimenti interviene «l’improcedibilità», cioè la cosiddetta prescrizione processuale.
È in entrambi i casi un netto superamento della legge Bonafede, con una valorizzazione del “lodo Conte bis” nel primo paradigma (definita come una «apprezzabile mediazione»). Ma ciò che forse più colpisce sono gli argomenti con cui la commissione Lattanzi spiega la necessità dell’emendamento: «Il "blocco" del corso della prescrizione, pur dopo un momento significativo come la sentenza che definisce il primo grado di giudizio, espone l’imputato al rischio di un processo di durata irragionevole nei giudizi di impugnazione», si ricorda. E poco più avanti si osserva, ancora, che con la prima ipotesi, «potendo il termine di prescrizione maturare nei giudizi di impugnazione, si evita, tanto per l’assolto quanto per il condannato, il rischio di un processo dai tempi potenzialmente infiniti».
E se proprio si vuole aver prova di quanto il diritto alla «ragionevole durata del processo» debba valere a prescindere dal fatto che una prima pronuncia abbia affermato la colpevolezza, si possono citare due altri aspetti. Nel sistema “processuale” ipotizzato da Lattanzi, i limiti che, se superati, determinano l’improcedibilità sono accresciuti, per i reati punibili con l’ergastolo, non oltre i 6 mesi per ciascun grado di giudizio. E poi la commissione, a proposito di quei delitti per i quali il «termine prescrizionale» è già di per sé «lungo», aggiunge che «il rischio di processi dai tempi irragionevoli» non può comunque «escludersi». E che perciò in quei casi sarebbe opportuna «l’introduzione dei rimedi compensatori e risarcitori per la violazione del diritto a un processo di ragionevole durata». Non solo la prescrizione va insomma ripristinata come argine al processo eterno, ma quando l’imputato resta comunque troppo tempo prigioniero di un’accusa, va risarcito o gli si deve assicurare uno sconto di pena. È una lezione sulla giustizia e sulla Costituzione. Ora i partiti, se vorranno ignorarla, dovranno dirlo con franchezza.