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Improcedibilità, non "prescrizioine": basta la parola e la crisi sulla legge Bonafede è risolta
Dalla Consulta arriva una vera e propria picconata alla norma Bonafede sulla prescrizione. Con una sentenza che, stabilendo l’incostituzionalità della sospensione prevista dal comma 9 dell’articolo 83 del decreto “Cura Italia”, ribadisce due principi fondamentali, fortemente messi in discussione dalla legge voluta dall’ex guardasigilli: la necessità di predeterminare per legge «il termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale» e l’obbligo di calcolare il tempo della prescrizione in termini di ragionevolezza e proporzionalità. Due principi che nella legge 3/2019 vengono fondamentalmente meno: la sospensione della prescrizione, infatti, non è predeterminata, ma dipende dalla durata dei processi. Cosa impossibile da calcolare in anticipo. La sentenza dello scorso 25 maggio, le cui motivazioni sono state depositate ieri, stabilisce che l’articolo 83 del decreto “Cura Italia” è in contrasto con il principio di legalità, vista la “libertà” con la quale il capo dell’ufficio giudiziario può adottare un provvedimento di rinvio dell’udienza penale per contrastare l’emergenza Covid. La Corte costituzionale ha quindi censurato la norma, accogliendo la questione sollevata dal Tribunale di Roma e confermando l’insufficiente determinatezza della fattispecie legale dalla quale consegue la sospensione dei termini di prescrizione dal 12 maggio al 30 giugno 2020. Secondo quanto evidenziato dalla sentenza, una persona accusata di un reato deve poter conoscere, sin dalla commissione del fatto, quale sia la fattispecie contestata, la pena ad essa collegata e le modalità della sua espiazione, nonché la durata della prescrizione. Per la quale la garanzia della sua natura sostanziale «si estende anche alle possibili ricadute che sulla sua durata possono avere norme processuali». È necessario perciò predeterminare per legge «il termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale». Sulla base del principio di legalità, la norma che comporta un prolungamento del termine di prescrizione come conseguenza dell’applicazione di una regola processuale deve essere «sufficientemente determinata», così come stabilito da una precedente sentenza della Consulta, anch’essa in riferimento all’articolo 83 del decreto Cura Italia, ma relativamente al comma 4. A novembre scorso, infatti, la Corte aveva respinto la censura mossa dai Tribunali di Siena, Spoleto e Roma sulla base del rinvio d’ufficio di tutti i procedimenti a data successiva all’11 maggio 2020 e la sospensione del decorso di tutti i termini per il compimento di qualsiasi atto. Una stasi processuale generalizzata e fissata entro certi limiti di tempo, dunque determinata, per la quale la Consulta non aveva ravvisato una violazione del principio di non retroattività, in quanto la sospensione rientrava in una «causa generale» imposta da una particolare disposizione di legge, così come previsto dal primo comma dell’articolo 159 del codice penale. Nel caso specifico, invece, il profilo della sufficiente determinazione risulta violato, in quanto il comma 9 della norma, pur fissando un limite al 30 giugno 2020, richiama le facoltà del capo dell’ufficio di adottare linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze e, su tale base, anche di rinviare le udienze a data successiva, salvo i casi urgenti. Una facoltà «che solo genericamente è delimitata dalla legge quanto ai suoi presupposti e alle finalità da perseguire». Basta, dunque, apporre motivazioni derivanti dal contrasto alla pandemia per poter rinviare la trattazione dei processi, con conseguenze non prevedibili sui tempi della prescrizione. «In tale quadro, questa normativa speciale e temporanea introduce sì una fattispecie di rilievo processuale, in quanto essa può comportare il rinvio delle udienze penali per alcuni processi e non per altri, secondo quanto prescritto nelle linee guida del capo dell’ufficio», continua la sentenza, ma manca una «adeguata specificazione circa le condizioni e i limiti legittimanti l’adozione del provvedimento di rinvio, cui appunto consegue tale effetto sfavorevole sul piano della punibilità del reato in ragione dell’allungamento del termine di prescrizione». In questo modo, «è solo al momento dell’adozione del provvedimento di rinvio del processo che si completa e si integra, caso per caso, la fattispecie legittimante il rinvio stesso: in tal modo la regola speciale finisce per avere un’imprevedibile variabilità». Per i giudici, dunque, si tratta di «un radicale deficit di determinatezza», con conseguente «lesione del principio di legalità limitatamente alla ricaduta di tale regola sul decorso della prescrizione». Secondo Oliviero Mazza, ordinario di Procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, la questione tocca da vicino la norma Bonafede sulla prescrizione, in quanto la stessa «fa dipendere la sospensione - che è in realtà è un blocco - dalla durata dei giudizi di impugnazione, quindi da scelte discrezionali del giudice - spiega al Dubbio -. La norma è già illegittima per due ragioni: la sentenza di novembre aveva stabilito che le sospensioni previste dalla legge devono comunque rispondere ad un criterio di ragionevolezza. Una sospensione sine die e non predeterminata nella sua durata è per ciò stesso irragionevole. La sentenza di oggi non fa altro che ribadire il concetto sotto un altro aspetto: non più l’irragionevole durata della sospensione, ma quello della sospensione non prevista dalla legge, facendo dipendere la durata da una scelta del giudice e non predeterminandola per legge». Per Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale presso l’Università di Roma “La Sapienza”, la norma Bonafede viene toccata soltanto da un passaggio contenuto nelle premesse della sentenza: «Il tempo della prescrizione deve essere calcolato in termini di ragionevolezza e proporzionalità - spiega al Dubbio -. La norma cui fa riferimento la sentenza è incostituzionale perché viola il criterio di tassatività, di legalità e di precisione, perché i modelli organizzativi possono essere diversi e non c’è una regola generale. La prescrizione può essere sospesa, ma non sine die, cioè senza un criterio di proporzionalità e ragionevolezza. Serve la certezza di un termine finale ed è proprio nei criteri di ragionevolezza e proporzionalità che la sentenza individua i rilievi al legislatore». Sotto questo profilo, dunque, ci si può chiedere quanto ci sia di costituzionale nella legge dell’ex ministro.