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Cassazione Melillo Lo Voi
Va bene, a volte la storia dispone le tessere del puzzle con un’intelligenza che sembra escludere la pura casualità. Ma era davvero difficile immaginare una così suggestiva sovrapposizione dei referendum alla riforma del Csm. Nel giorno fatale del via libera a 5 dei 6 quesiti “giudiziari” di radicali e Lega, la consultazione popolare toglie del tutto la scena al ddl. Che proprio ieri avrebbe dovuto riaccendere i motori in commissione, ma che invece si avvita in un’altra falsa partenza: il maxi emendamento Cartabia, approvato venerdì scorso in Consiglio dei ministri, non è stato trasmesso a Montecitorio. Nessun giallo, a quanto pare: si tratta di un pit stop imposto dalla Ragioneria dello Stato per via di coperture su aspetti marginali. Secondo fonti parlamentari, il ritardo nella tradizionale “bollinatura” sarebbe legato alle norme sui corsi preparatori alla carriera da magistrato e ai relativi costi da finanziare. In ogni caso ieri l’ufficio di presidenza della commissione Giustizia di Montecitorio ha dovuto prendere atto che l’agognato testo governativo ancora non c’è, e ha rimandato ogni decisione sul calendario dei lavori.
Resta dunque, a livello simbolico, il sorpasso nettissimo della consultazione popolare sulla riforma. Pesa soprattutto il dato ufficiale sulla separazione delle funzioni tra giudice e pm: gli italiani saranno chiamati a esprimersi sulla questione direttamente con il loro voto. E anche se l’attuale testo sul Csm entrasse in vigore in anticipo sulla data della consultazione popolare, difficilmente potrà produrre la revoca del quesito sulle funzioni, visto che il testo Cartabia lascia aperte due “finestre” per il cambio, e lo stesso emendamento proposto da Forza Italia potrebbe ridurre i passaggi a uno soltanto, non vietarli del tutto come invece avverrebbe con la vittoria del Sì. Fino a venerdì scorso, fino all’ok corral in Consiglio dei ministri sullo stop alle porte girevoli, il ddl in materia di ordinamento giudiziario aveva una duplice identità. Una superficie di norme dall’impatto politico- mediatico forte, a cominciare appunto dal divieto di rientro per i magistrati cooptati dalla politica, e un sottostante impianto di ingegneria normativa meno accessibile ai profani, ma pure importante per il rinnovamento della magistratura. Da ieri, la scena cambia. Non che l’impalcatura sull’ordinamento giudiziario possa essere del tutto inghiottita dal vortice dei referendum, questo no. Ma è chiaro che ora, assai più di prima, la partita si fa politica. Da una parte la lega, che ruba la scena alla riforma con la campagna sui propri quesiti. Dall’altra i partiti, innanzitutto di centrodestra, che cercheranno di erodere con le proposte di modifica al ddl sul Csm almeno parte del protagonismo di Salvini. Anche se a dirla tutta, proprio il maggiore concorrente interno del Carroccio, Forza Italia, ieri ha inviato, sul referendum, segnali simpatizzanti. Il capogruppo in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin ha subito assicurato che i berlusconiani sosterranno i quesiti ammessi. Renato Schifani ha accolto la decisione della Corte costituzionale come una «notizia positiva». Anzi, ha fatto notare come proprio la «separazione delle carriere» sia «una battaglia storica di Forza Italia: solo con la divisione tra magistratura giudicante e inquirente si potranno definire i contorni della terzietà e dell’indipendenza dei giudici». Come pesa pure il fatto che un figura chiave, sulla giustizia, sia per gli azzurri sia per il governo, Francesco Paolo Sisto, torni ad assicurare che «consultazione e riforma sono percorsi diversi e non alternativi». In teoria, la pronuncia di Palazzo della Consulta potrebbe innescare anche un altro effetto: un’accelerazione sull’iter della riforma. Che contiene, tra l’altro, norme in grado di “assorbire” 2 dei 5 quesiti referendari sulla giustizia: il voto degli avvocati sulle promozioni dei magistrati e l’eliminazione delle firme a sostegno delle toghe che corrono per un “seggio” al Csm. Solo nel secondo caso, in realtà, un’approvazione fulminea del ddl potrebbe portare a una revoca del corrispondente quesito. Ma in teoria, alcune forze potrebbero trovare una particolare motivazione proprio nella concorrenza dei referendum leghisti. Solo che ora il vento tira in tutt’altra direzione. Anche un’altra prima linea del dibattito sulla giustizia, il deputato di Azione Enrico Costa, spiega che il suo partito «deciderà nelle sedi opportune la posizione da assumere sui referendum», ma già prende atto che «il Parlamento ha assunto, con particolare riferimento alle materie oggetto dei quesiti in ambito giustizia, una posizione timida e conservativa». Insomma, già si assiste a un trasferimento di energie dalla riforma alla consultazione popolare. E la falsa partenza sofferta dal ddl nel giorno dell’exploit referendario non fa che confermare questa impressione.