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Anthony e Nicola Spina sono fratelli. Il primo ha 19 anni, il secondo 24. Giovanissimi, ma già a processo per omicidio. Avrebbero ucciso un compagno di rapine, anche lui giovanissimo, Emanuele Errico. Ma nonostante ciò, «dobbiamo offrire loro una seconda opportunità e provare a rieducarli in carcere, come prevede la Costituzione». La richiesta non viene da una voce qualunque, ma dalla pubblica accusa, quella che ha chiesto per loro 30 anni di carcere: il pm di Napoli Henry John Woodcock. Tre giorni fa, nelle battute finali del processo per omicidio, celebrato con rito abbreviato, si è rivolto al gup decidendo di rimanere fedele fino in fondo all’articolo 27 della Costituzione, dichiarando deliberatamente di rifiutare per loro, così giovani, anche se colpevoli, l’idea dell’ergastolo. Che pure avrebbe potuto chiedere, date le aggravanti contestate. La motivazione, per quanto semplice, non è per niente scontata: è l’idea della pena come forma di rieducazione. Un’idea in netto contrasto con l’invito a “buttare le chiavi” diventato ormai slogan politico. La speranza di Woodcock è che quei giovani possano rifarsi una vita una volta scontata la pena, cioè quando i due avranno rispettivamente 49 e 54 anni, anno più, anno meno. La storia sullo sfondo è quella di tre ragazzi, tre amici che vivono ad una manciata di passi di distanza e che insieme, anziché dare calci ad un pallone, mettono a segno rapine. Emanuele Errico, alias “Pisellino”, viene ucciso nel Rione Conocal di Ponticelli, a Napoli, il 26 aprile 2018. La sua morte ha una ragione semplice quanto tremenda: una ritorsione per aver dato fuoco allo scooter di proprietà dei due fratelli Spina. Ci sono pochi dubbi sulla dinamica di quella notte, perché l’omicidio viene ripreso dalle telecamere di sorveglianza di un supermercato, le stesse telecamere grazie alle quali Anthony e Nicola, il giorno prima, scoprono che a bruciare il loro motorino è stato proprio Emanuele. I tre amici, infatti, da giorni litigano per la spartizione del bottino di una rapina. E dalle parole e dalle minacce sono passati, in poco tempo ai dispetti. Fino all’ultimo, quello del 25 aprile, giorno in cui Emanuele decide di dare fuoco al motorino parcheggiato davanti casa Spina. Il fumo invade l’appartamento e tutta la famiglia è costretta a scendere in strada. Anthony e Nicola pensano subito a lui, Emanuele, e così chiedono al titolare del supermercato di poter controllare le immagini del circuito di videosorveglianza. Bingo: quello che vedono è proprio il loro ex compagno compiere la sua ultima ripicca. Lo riconoscono dall’andatura un po’ dondolante, non hanno dubbi e allora decidono di vendicarsi. Ma sono maldestri e superficiali, perché pur sapendo perfettamente che quelle telecamere sono lì le ignorano. Davanti all’occhio della videosorveglianza, senza alcuna cautela, i due fratelli entrano in azione. È Anthony, il più piccolo, a premere il grilletto e colpire alla schiena l’ex amico. Con Emanuele ci sono anche altri due ragazzi, uno dei quali rimane ferito ad una gamba, ma i due ne escono sani e salvi, alla fine. Nicola, materialmente, con l’omicidio non c’entra. Ma secondo l’accusa, ci mette del suo, preparando l’agguato assieme al fratello, appoggiandolo e scappando con lui fino in Calabria, a Scalea, dove la loro famiglia ha una casa per le vacanze. La madre di Emanuele, intanto, fa i loro nomi, dice di averli visti uccidere suo figlio. E i due, con la loro fuga, sembrano confermare tutto quanto. Prima di arrivare in provincia di Cosenza spariscono dal quartiere, poi fanno una tappa a Castel Volturno, poi da alcuni parenti in via Nazionale. Alla fine prendono l’autostrada e scendono di qualche chilometro lungo lo stivale, rifugiandosi nella casa al mare. Teoricamente è un nascondiglio momentaneo: l’obiettivo è andare fuori, in Germania, dove rifugiarsi e poi cercare una soluzione. Sperano solo di avere il tempo di organizzare tutto, di prendere fiato un attimo e poi far perdere ogni traccia. Ma trovarli, per gli investigatori, è abbastanza semplice: nessuno, in famiglia, fa mistero della situazione e tutti ne parlano al telefono come se nulla fosse. Confermano le responsabilità, rivelano dove si trovano. Insomma, nessuno li aiuta, anche questa volta maldestramente. La moglie di Nicola, che ha anche dei figli, sa che «il pensiero che la galera se la deve fare lo tiene». Il padre dei due, invece, anche lui arrestato per furto giorni fa, si lamenta della fuga dei figli con il bottino, «senza pensare a nessuno». Il pm ha pochi dubbi sulle responsabilità. Ci sono i filmati, ci sono le intercettazioni, i testimoni. E ci sono pure le aggravanti della premeditazione, dei motivi futili e abietti e dell'utilizzo di armi detenute illegalmente. L’unica cosa che non c’è sono i clan: la camorra non c’entra, dice l’accusa. Sarebbe semplicissimo, però, chiedere e ottenere una condanna al fine pena mai. Buttare la chiave, dunque, come si fa con gli assassini della peggior specie, coi criminali incalliti. Ma Woodcock li guarda e ci pensa: sono chiaramente tutto fuorché dei professionisti.Anzi, forse non potrebbero esserlo mai. E sono pure, fondamentalmente, due ragazzini. Magari proprio per questo, avrà pensato il magistrato, salvarli dal loro destino non è del tutto impossibile. «Quando usciranno dal carcere — ha detto guardando al gup — avranno 50 anni o poco più. Le bambine di Nicola saranno donne,probabilmente madri. Loro potranno, se lo vorranno, rifarsi una vita in maniera onesta». Adesso toccherà alla difesa, rappresentata dagli avvocati Roberto Saccomanno e Sergio Simpatico, discutere, poi la palla passerà al giudice. Che nel decidere la pena deciderà anche se Anthony e Nicola, e forse non soltanto loro, hanno la possibilità di cambiare.