Il criterio da adottare nella nomina dei capi degli uffici giudiziari è da sempre al centro di accese discussioni, in primis fra i magistrati stessi. L’argomento è delicato in quanto dalla scelta del vertice dipende poi la “politica giudiziaria” di quel determinato ufficio ed i cui effetti sono facilmente intuibili. Basti pensare alla determinazione dei criteri di priorità nella trattazione degli affari civili e penali da parte delle Procure e dei Tribunali.
La recente nomina di Giovanni Melillo, ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando, a procuratore di Napoli ha impresso un’accelerazione a questa discussione, spaccando sostanzialmente la magistratura. Melillo, come si ricorderà, era stato preferito al procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho nonostante fosse più giovane di servizio e avesse trascorso parte della sua carriera professionale lontano dalla giurisdizione.
L’attuale Testo unico sulla dirigenza del Csm, infatti, superando il paramento dell’anzianità di servizio, si concentra molto sulla capacità organizzativa del magistrato, requisito ormai imprescindibile nella scelta del capo dell’ufficio.
Non tutti, però, sono concordi con questo nuovo corso dell’Organo di autogoverno delle toghe. Andrea Mirenda, il presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Verona che in polemica con le scelte del Csm ha deciso il mese scorso di rinunciare alla funzione semidirettiva per ricoprire il ruolo di magistrato di sorveglianza, ha avanzato una proposta che eliminerebbe sul punto il potere discrezionale di Palazzo dei Marescialli e il ruolo delle correnti della magistratura.
Si tratta della “rotazione turnaria” delle funzioni direttive e semidirettive fra i magistrati dell’ufficio. Una proposta bollata dal consigliere laico del Csm Pierantonio Zanettin ( FI), componente della Commissione per gli incarichi direttivi, come “maoista”.
L’idea di Mirenda in questi giorni ha riscosso un discreto riscontro sulle mailing list dei magistrati.
Va tenuto presente che, considerando l’attuale pianta organica, i posti di vertici disponibili sono solo per il 10% delle toghe. Ciò determina che il rimanente 90% si “disinteressa” da subito dell’autogoverno.
All’obiezione che non tutti i magistrati hanno uguali capacità organizzative, Mirenda replica che quotidianamente ciascuna toga organizza il proprio ruolo. Il sistema, dunque, tollera “l’incapacità” del collega ad organizzare la gestione dei propri processi ma si “allarma” se quello stesso magistrato dovesse essere chiamato a svolgere un turno di gestione di un Tribunale.
I magistrati, poi, in vista di quel “dovere di dirigenza” parteciperebbero necessariamente ed attivamente alle scelte via via adottate dal dirigente pro tempore, dando vita addirittura ad un loop virtuoso.
E se proprio non si volesse accettare il criterio della turnazione in quanto non tutti i magistrati hanno una seria capacità organizzativa, “i tempi sarebbero maturi per la c. d. doppia dirigenza, con affidamento di quel compito ad un manager del Tribunale, nominato su concorso nazionale, esterno alla funzione giudiziaria e formatosi in università o in aziende che del management abbiano fatto il loro core shell, al pari di quanto accade negli ospedali pubblici, dove il dg non è un medico né opera i pazienti”, conclude Mirenda.