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Nel giro di pochi anni, forse, sarà pure firmato un Trattato. «Ma non è una nuova Carta dei valori che serve al diritto internazionale: serve la determinazione degli Stati industrializzati nel prevedere sanzioni per le imprese che hanno sede nel loro territorio e che violano i diritti umani quando operano nei Paesi in via di sviluppo». A dirlo è Anton Giulio Lana, presidente dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani, che coordina il corso di specializzazione, promosso a Roma dal Cnf, proprio sul rapporto tra multinazionali e rispetto dei principi fondamentali. La due giorni, iniziata ieri con l’intervento del presidente del Cnf Andrea Mascherin, vedrà anche oggi il contributo di operatori del diritto e studiosi.
In uno degli ultimi incontri ospitati al Cnf con le avvocature del Mediterraneo si è parlato dell’Acqua per la pace e, tra l’altro, dell’eroismo di alcuni attivisti, come la green Nobel Phyllis Omido che in Etiopia è riuscita a far chiudere una fonderia colpevole di aver causato gravissimi danni alla salute a Mombasa e dintorni. Ecco, ad ascoltare però gli alert irradiati dal corso su “Diritti umani e impresa” in svolgimento da ieri presso la Pontificia università della Santa Croce a Roma, c’è da temere che quello resti un episodio irripetibile, e che di fatto i limiti all’azione delle imprese sul piano globale siano impalpabili. È il senso delle relazioni proposte ieri, nella prima delle due giornate del corso, di nuovo promosso dal Consiglio nazionale forense insieme con la Scuola superiore dell’avvocatura e l’Unione forense per la tutela dei diritti umani, il cui presidente, l’avvocato e Anton Giulio Lana, è anche coordinatore scientifico. «È importante dare un contributo al dialogo», dice in apertura il vertice del Cnf Andrea Mascherin, «in una fase in cui la comunicazione privilegia i social e il loro linguaggio secco, brutale, poco disponibile alla riflessione sui principi». Ed è significativo che l’avvocatura promuova un’ulteriore occasione formativa sui diritti inalienabili, a riprova del richiamo proposto dallo stesso Mascherin e dalla consigliera del Csm Paola Balducci sul «ruolo sociale» della professione forense. Nello specifico, il contributo che gli avvocati danno alla tutela dei diritti umani nelle attività di impresa è orientato al pragmatismo: come spiega Lana, «l’accessibilità ai rimedi è lo snodo decisivo. Qualunque raccomandazione rivolta ai players economici e in particolare alle società di livello multinazionale, per quanto calibrata, finisce per essere vana, se i singoli Stati a loro volta non producono legislazioni capaci di vincolare davvero le aziende ricadenti sotto la propria giurisdizione a preservare i diritti», nota il coordinatore del corso. «E il rimedio è accessibile solo nel momento in cui il singolo individuo che ritiene violati i propri diritti può reclamare il risarcimento del danno. O quando è possibile sanzionare l’impresa che non si adoperi a prevenire quel danno. Ebbene», aggiunge Lana, che tra i relatori si occupa proprio del tema dei rime- di, «gli Stati esitano a introdurre vincoli così stringenti. Sarebbe possibile arrivarci solo se si raggiungessero intese non su un nuova Carta o un nuovo documento di raccomandazione, come quelli pure di grande valore adottati dall’Onu, ma su un obiettivo politico: contrastare l’uno le imprese dell’altro Stato nelle loro violazioni, da quelle relative al lavoro a quelle ambientali».
È quanto ribadiscono gli interventi di relatori del calibro di Guido Alpa e del giudice della Corte internazionale di giustizia Fausto Pocar, che avverte: «C’è da confidare nell’autodisciplina delle imprese, che anche per ragioni d’immagine tendono a imporsi delle regole, piuttosto che negli Stati. D’altra parte il nodo che al momento vanifica ogni evoluzione in questo campo è nella interpretazione che gli Stati Uniti danno del Patto internazionale sui diritti civili e politici, una delle principali Carte da cui sia possibili trarre principi per le imprese: vi si prevede che gli Stati assicurino il rispetto dei diritti umani, da parte di soggetti come le imprese che abbiano radice in quel Paese e ricadano sotto la giurisdizione di quest’ultimo. Ebbene», osserva il giudice Pocar, «gli Usa ritengono che territorio e giurisdizione siano due condizioni non alternative ma entrambe necessarie, che devono dunque essere compresenti. In tal modo ogni volta che una multinazionale con sede Oltreoceano viola diritti nell’ambito di attività svolte in Paesi stranieri, magari in via di sviluppo, gli Stati Uniti non si considerano tenuti a intervenire». È l’equivoco da cui discende tutto il resto: gli Stati più deboli non possono mettersi contro multinazionali da cui traggono qualche ricchezza, dunque non c’è alcuna autorità politica che faccia da argine. Va riconosciuta all’Italia - come giustamente rivendicato da Fabrizio Petri, che presiede il Comitato interministeriale Diritti umani - il merito di «porsi sempre avanti a tutti gli altri Paesi nella propria legislazione e nel sollecitare passi avanti sul piano internazionale, in vista di un futuro vero e proprio Trattato». Ma altri governi frenano. E non resta che confidare nella puntuale segnalazione dei vulnus lasciati sguarniti, moniti che l’avvocatura più di altri è in grado di rivolgere.