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Punire con il carcere il reato di diffamazione è incostituzionale, perché mina una libertà fondamentale qual è quella di manifestazione del pensiero, tutelata sia dalla Costituzione sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma ciò non autorizza il giornalista a diventare un pericolo per la democrazia, attraverso la diffusione di campagne di diffamazione che minano un altrettanto importante diritto: quello alla reputazione. Solo in casi gravi come questo, dunque, la pena carceraria è compatibile con la Costituzione, in attesa che il legislatore dia seguito all’invito formulato dalla Consulta lo scorso anno, invito caduto nel vuoto. È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza con la quale la Corte costituzionale, lo scorso 22 giugno, ha sancito l’incostituzionalità dell’articolo 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948), che prevedeva la necessaria applicazione della reclusione da uno a sei anni per la diffamazione a mezzo della stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato. La sentenza, dunque, definisce ulteriormente i limiti del diritto di cronaca, che mai può sfociare in un condotte «caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi. Chi ponga in essere simili condotte – eserciti o meno la professione giornalistica – certo non svolge la funzione di “cane da guardia” della democrazia - si legge nella sentenza -, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità “scomode”; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia». I giudici si sono pronunciati sulle questioni sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari, trattate già a giugno dello scorso anno, ma la cui decisione è stata rinviata di un anno per dare tempo al legislatore di approvare una nuova disciplina in grado di bilanciare meglio il diritto alla libertà di cronaca e di critica con la tutela della reputazione individuale. Riforma che, però, non è arrivata, “costringendo” il giudice delle leggi ad intervenire con la pronuncia di un mese fa. Stando alla sentenza, «per quanto (...) la sanzione detentiva non possa ritenersi sempre costituzionalmente illegittima nei casi più gravi di diffamazione, la sua necessaria inflizione, prevista dalla disposizione censurata in tutte le ipotesi da essa previste – che abbracciano, in pratica, la quasi totalità delle diffamazioni commesse a mezzo della stampa, periodica e non –, conduce necessariamente a esiti incompatibili con le esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e in particolare con quella sua specifica declinazione costituita dalla libertà di stampa». Dichiarare incostituzionale l’articolo 13 «non crea, del resto, alcun vuoto di tutela al diritto alla reputazione individuale contro le offese arrecate a mezzo della stampa, diritto che continua a essere protetto dal combinato disposto del secondo e del terzo comma dello stesso art. 595 cod. pen.». Ma se è vero che «la libertà di espressione – in particolare sub specie di diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti – costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona», prosegue la sentenza. Per tale motivo, «aggressioni illegittime a tale diritto» attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità «possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime. E tali danni sono suscettibili, oggi, di essere enormemente amplificati proprio dai moderni mezzi di comunicazione, che rendono agevolmente reperibili per chiunque, anche a distanza di molti anni, tutti gli addebiti diffamatori associati al nome della vittima. Questi pregiudizi debbono essere prevenuti dall’ordinamento con strumenti idonei, necessari e proporzionati, nel quadro di un indispensabile bilanciamento con le contrapposte esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e del diritto di cronaca e di critica in particolare». Non può escludersi, tra questi strumenti, la sanzione detentiva, purché la stessa sia stabilita sulla base di «cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica». La diffamazione deve, dunque, essere di eccezionale gravità, come stabilito anche dalla Cedu più volte anche in riferimento a casi italiani, ritenendo integrate simili ipotesi con riferimento ai discorsi d’odio e all’istigazione alla violenza, ma casi egualmente eccezionali «potrebbero ad esempio essere anche rappresentati da campagne di disinformazione». Atteggiamenti simili creano, dunque, «un pericolo per la democrazia, combattendo l’avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare la sua persona agli occhi della pubblica opinione. Con prevedibili conseguenze distorsive anche rispetto agli esiti delle stesse libere competizioni elettorali». Proprio per tale motivo, la Corte ha escluso il contrasto con la Costituzione dell’articolo 595, terzo comma, del Codice penale, che prevede, in alternativa fra loro, la pena della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa in caso di condanna per diffamazione commessa a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità. Nei casi su elencati, infatti, il carcere non può essere inteso come «indebita intimidazione nei confronti dell’esercizio della professione giornalistica, e della sua essenziale funzione per la società democratica. Al di fuori di quei casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professione giornalistica, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione; restando aperta soltanto la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione, nonché rimedi e sanzioni civili o disciplinari, in tutte le ordinarie ipotesi in cui la condotta lesiva della reputazione altrui abbia ecceduto dai limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica». La Corte ha infine ribadito la necessità «di una complessiva riforma della disciplina vigente, allo scopo di “individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica, e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività”».