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Non basta che il clan di appartenenza non esista più per concedere il permesso premio all’ergastolano non collaboratore con la giustizia. Così ha stabilito una recente sentenza della cassazione, la numero 6750.
Quando nel 2019 la Consulta fece decadere l’ostatività del permesso premio agli ergastolani non collaboranti con la giustizia, diversi movimenti politici e una parte della magistratura, hanno creato allarmismo inducendo l’opinione pubblica a pensare che fosse una specie di “tana libera tutti” per i mafiosi, compresi quelli stragisti. In realtà le cose non stanno così. Finora i permessi premio sono stati concessi con il contagocce, perché i requisiti sono estremamente rigidi e vanno rispettati tutti.
Prendiamo in esame l’ultimo caso di rigetto. Accade che il tribunale di Sorveglianza di L'Aquila ha rigettato il reclamo di Francesco Martinese, condannato all'ergastolo (e in più recluso al 41 bis) per reati legati alla criminalità organizzata, contro la decisione del Magistrato di Sorveglianza di respingere il permesso premio da lui richiesto.
Il Tribunale ha ritenuto che, nonostante la buona condotta del detenuto, non si poteva escludere la sua pericolosità sociale e che era prematuro concedere il permesso premio.
L’ergastolano ha quindi presentato ricorso per cassazione, sostenendo che il Tribunale di Sorveglianza non ha tenuto conto del fatto che il “clan Martinese”, di cui faceva parte, si era smembrato, e che non vi erano nuove incriminazioni o evidenze di contatti con la criminalità organizzata. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo che le censure sollevate dal detenuto fossero infondate e che la decisione del Tribunale di Sorveglianza fosse corretta.
Il permesso premio è una misura prevista dalla legge per consentire ai detenuti che hanno tenuto una regolare condotta di coltivare interessi affettivi, culturali o lavorativi. Come scrive la Corte suprema, tale istituto è volto a soddisfare una pluralità di concorrenti esigenze, in quanto caratterizzato dalla specifica funzione pedagogico propulsiva — quale parte integrante del trattamento, di cui costituisce uno strumento cruciale, secondo quanto indicato dalla Corte costituzionale già con la sentenza n. 504 del 1995 — che si accompagna a quella premiale, strettamente connessa all'osservanza di una regolare condotta da parte del detenuto ed all'assenza, nel beneficiario, di pericolosità sociale, anche se orientata alla coltivazione di interessi affettivi, culturali e di lavoro.
Il giudice, pertanto, a fronte dell'istanza intesa alla concessione dei permessi premio, deve accertare, acquisendo le informazioni necessarie a valutare la coerenza del permesso con il trattamento complessivo e con le sue finalità di risocializzazione, la sussistenza di tre requisiti, integranti altrettanti presupposti logico- giuridici della concedibilità del beneficio e costituiti, rispettivamente, dalla regolare condotta del detenuto, dall'assenza di sua pericolosità sociale e dalla funzionalità del permesso premio alla coltivazione di interessi affettivi, culturali e di lavoro Tuttavia, la concessione di tale misura dipende da vari fattori che il Magistrato di Sorveglianza deve valutare. Come recita la sentenza della Consulta del 2019 che ha fatto decadere l’ostatività, la valutazione per concedere o meno tale permesso, deve rispondere a criteri «di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l'abbandono definitivo», e quindi gli oneri dimostrativi imposti al richiedente il permesso premio non possono basarsi, in misura decisiva, sul suo atteggiamento soggettivo. Nel caso di Francesco Martinese, il Tribunale di Sorveglianza ha ritenuto che, nonostante la buona condotta dimostrata in carcere, la sua partecipazione passata alla criminalità organizzata fosse ancora motivo di preoccupazione per la sua pericolosità sociale e che fosse prematuro concedere tale permesso.
La Cassazione ha ritenuto che la decisione del Tribunale di Sorveglianza fosse corretta. In particolare, la Corte ha osservato che la valutazione della pericolosità sociale del detenuto deve essere basata non solo sulla sua condotta in carcere. Inoltre ha sottolineato che Martinese, pur descritto dagli organi del trattamento come protagonista di un corretto comportamento inframurario, non ha allegato elementi sintomatici del suo definitivo allontanamento dagli ambienti delinquenziali di appartenenza, onde ineccepibile appare, alla luce dei criteri enunciati dalla Corte costituzionale, il rigetto della richiesta di permesso premio, sancita dal Magistrato di sorveglianza.
I giudici supremi scrivono che «a fronte di una decisione che si palesa frutto della complessiva, equilibrata delibazione delle evidenze disponibili, il ricorrente si pone in una prospettiva di mera confutazione, imperniata su una premessa da ritenersi senz'altro fallace perché trascura l'esistenza della presunzione, relativa, di pericolosità sociale che, nel caso in esame, è pienamente operativa in quanto non contraddetta da qualsivoglia elemento di segno contrario».
In conclusione, il caso di Francesco Martinese evidenzia l'importanza della valutazione della pericolosità sociale dei detenuti nella concessione dei permessi premio e la necessità di valutare non solo la condotta in carcere o l’estinzione del clan di appartenenza, ma tanti altri requisiti. La Corte di Cassazione ha confermato che la decisione del Tribunale di Sorveglianza era giusta e che le censure sollevate dall’ergastolano Martinese erano infondate.
Com’è detto i sostenitori dell’ergastolo ostativo – introdotto attraverso il 4 bis nei primi anni 90, quando la mafia costituiva un'emergenza e lo stato cercava di dispiegare ogni sua forza per contrastarla - accusavano chi ne metteva in dubbio la costituzionalità di voler, in buona sostanza, fare un favore alla mafia. Un clima infuocato che poi si è ripresentato quando la corte costituzionale doveva pronunciarsi sull’ostatività alla liberazione condizionale.
Eppure, se pensassimo solo alla fine dell’ostatività del permesso premio permessi avvenuto nel 2019 con la sentenza della Consulta, tale concessione agli ergastolani non collaboranti raggiunge numeri da prefisso telefonico. Sì, perché ci sono rigidi paletti. E sono legittime e condivisibili, le rigorose cautele imposte nella valutazione del percorso riabilitativo di un condannato per mafia. Quello che non è costituzionalmente sostenibile è l'automatismo preclusivo nei confronti di un non collaborante. Come ha detto il giurista Glauco Giostra in una intervista di due anni fa all’huffingtonpost, «non possiamo leggere nell'articolo 27 della Costituzione “le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato, salvo che si tratti di mafioso non collaborante”».