Ostia, sbocco di Roma sul mare. Qui i cittadini non hanno votato per il rinnovo del X Municipio della Capitale. Dall’agosto dello scorso anno la loro amministrazione locale è commissariata, il mini consiglio comunale è stato sciolto per ilnfiltrazioni mafiose. Peccato che la mafia da queste parti non esista. Almeno secondo i giudici della Corte d’Appello di Roma che il 13 giugno hanno fatto decadere l’aggravante prevista dal 416 bis, richiesta dai pm, a carico di alcuni esponenti storici delle famiglie Fasciani e Triassi, ritenute comunque responsabili del controllo criminale delle attività economiche del Litorale. Per i magistrati romani, infatti, gli imputati hanno sì messo in piedi un’associazione a delinquere, ma semplice, non di stampo mafioso. Una sentenza che ha ovviamente scatenato una lunga scia di polemiche. A partire dal Partito democractio, che a Ostia aveva già fatto dimettere il proprio mini sindaco, Andrea Tassone (poi arrestato), già prima del decreto di scioglimento del X Municipio. «L’assoluzione dei Triassi dall’accusa di associazione mafiosa mi indigna: per alcuni giudici il 416 bis non si applica», ha detto stizzito Stefano Esposito, senatore dem e commissario del Pd ostiense. «A questo punto mi chiedo perché abbiamo sciolto il municipio X per mafia. Pochi giorni fa la Cassazione ha confermato l’associazione mafiosa per imputati che, nell’ambito dello stesso processo, avevano scelto il rito abbreviato. Rispetto la magistratura ma non comprendo queste schizofrenie». E per certi versi Esposito non ha tutti i torti, perché il caso Ostia mette in luce gli aspetti più scivolosi della legislazione antimafia: la difficoltà nella dimostrazione dell’aggravante mafiosa e la discrezionalità (almeno fino al febbraio 2016) su cui si fonda la decisione di sciogliere un Comune. Per concludere un’esperienza amministrativa, infatti, non servono prove, bastano sospetti e indizi. Al ministro Angelino Alfano - che ha chiesto al Presidente della Repubblica di decretare lo scioglimento del X Municipio - è bastato leggere la relazione scritta dall’ex prefetto Franco Gabrielli per farsi un’idea precisa della situazione. E per l’attuale Capo della Polizia, il litorale di Ostia era «profondamente inquinato e piegato alle esigenze delle diverse consorterie criminali». A sostegno della propria tesi, Gabrielli fa riferimento ad alcune inchieste giudiziarie «dove viene in rilievo l’esistenza di un sistema che, attraverso il vincolo intimidazione e le correlate situazioni di assoggettamento ed omertà proprie dei sodalizi mafiosi, mira a scardinare gli assetti economici locali, attraverso il saccheggio, pacificamente operato, di un territorio, significativo per l’immediata contiguità con una grande capitale europea, sede di scelte di governo». Per la Corte d’appello capitolina, quel sistema in realtà non esiste.La nuova sentenza, oltre a gettare nella confusione i cittadini di Ostia, rischia di pregiudicare l’inchiesta “Mondo di mezzo”, il processo più importante che sia stato mai istruito nella Capitale contro una presunta organizzazione mafiosa. Anche perché alcuni dei protagonisti criminali del Litorale romano sarebbero stati in rapporti col “nero” Massimo Carminati. I Triassi fino a ieri erano considerati la famiglia mafiosa per eccellenza. Originari di Siculiana, in provincia di Agrigento, i siciliani di Ostia sono sempre stati indicati come i luogoteneti della famiglia Cuntrera-Caruana, narcotrafficanti di spessore internazionale. Per gli inquirenti, i Triassi erano una diramazione di Cosa nostra sul Litorale, la vera mafia con cui Massimo Carminati intratteneva stretti rapporti. Ma per i giudici questa ricostruzione è frutto di fantasia. Una boccata d’ossigeno anche per gli avvocati degli imputati interessati dal processo Mafia Capitale, che utilizzeranno questa sentenza della corte d’Appello di Roma per alleggerire la posizione dei loro assistiti. Perché Roma e Ostia non sono mai due cose totalmente separate. Secondo l’ex prefetto Gabrielli, anche Andrea Tassone, il presidente del Municipio, avrebbe «intrattenuto rapporti e connivenze con il brand economico di mafia Capitale, funzionali a far conseguire a quest’ultimo una serie di appalti pubblici. Tali rapporti sono, inoltre, testimoniati in conversazioni intercettate, raccolte soprattutto in relazione all’affidamento del servizio di manutenzione del verde pubblico, laddove il tenore delle conversazioni evidenzia - oltre ad una indebita conoscenza, da parte delle cooperative aspiranti all’aggiudicazione, di notizie sulla gestione del servizio - il pesante condizionamento svolto da Buzzi ed i suoi accoliti sulla stazione appaltante per ottenere condizioni a loro favorevoli. Già da queste circostanze emerge con chiarezza come le collusioni esistenti tra il Presidente del Municipio e le organizzazioni criminali abbiano prodotto l’effetto di piegare e condizionare l’azione degli organi amministrativi agli interessi illegali di mafia Capitale». Bisogna capire cosa ne penserà un giudice.