PHOTO
«La Corte considera che la lingua e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolino preconcetti sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare l'effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza contro le donne, nonostante un quadro legislativo soddisfacente». Sono parole pesanti quelle della Cedu contro l’Italia, condannata per aver esposto una donna, attraverso le motivazioni di una sentenza assolutoria per il reato di violenza sessuale di gruppo, a vittimizzazione secondaria, con valutazioni arbitrarie circa le scelte sessuali e i comportamenti personali non rilevanti per la sua attendibilità. Una decisione che, dunque, per la Cedu cristallizza un problema culturale del nostro Paese, che spesso emerge anche nelle aule di giustizia. Il caso riguardava un procedimento penale contro sette uomini accusati di stupro di gruppo alla Fortezza di Firenze, sei dei quali condannati in primo grado e poi assolti dalla Corte d'appello di Firenze. Una decisione legittima, ma assunta attraverso «ingiustificati commenti» riguardanti la bisessualità della presunta vittima, le sue relazioni e le relazioni sessuali occasionali intrattenute prima del presunto stupro di gruppo. Proprio i procedimenti penali per casi simili, secondo i giudici europei, giocano un ruolo fondamentale nel superamento dei pregiudizi e per la risposta istituzionale contro le diseguaglianze di genere, motivo per cui è «quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria, formulando commenti che inducono il senso di colpa e giudizi in grado di scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario». I giudici d’appello avevano assolto gli imputati ritenendo che fossero troppe le incongruenze nel resoconto degli eventi da parte della giovane, tali da minare la sua credibilità nella sua interezza. Nel luglio 2015 la donna ha chiesto all'ufficio del pubblico ministero di presentare ricorso in Cassazione, contestando le ragioni della sentenza della Corte d'appello, ma il pm non ha impugnato la sentenza, che è dunque diventata definitiva. La donna, rivolgendosi alla Cedu, ha puntato il dito contro le autorità nazionali, che non sarebbero state in grado di tutelare il suo diritto al rispetto della vita privata e della sua integrità personale nel contesto del procedimento penale, lamentando anche una discriminazione fondata sul sesso. Per la Cedu sarebbero ingiustificati i riferimenti alla biancheria intima rossa “mostrata” dalla ricorrente nel corso della serata, così come i commenti riguardanti la sua bisessualità e le sue precedenti relazioni. Allo stesso modo sono inadeguate le considerazioni riguardanti «l’atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso» della ricorrente, che la Corte d'appello ha rilevato, tra le altre fonti, dalle sue decisioni artistiche, definendo discutibile il suo consenso a prendere parte ad un cortometraggio in cui interpretava una prostituta sottoposta a violenza. Inoltre, per i giudici d’appello la donna avrebbe presentato denuncia per il desiderio di «ripudiare un momento di fragilità e debolezza che era aperto alla critica», commenti ritenuti dalla Cedu «deplorevoli e irrilevanti», così come il riferimento alla «vita non lineare» della donna. Considerazioni e critiche non rilevanti né giustificate «dalla necessità di garantire che gli imputati potessero godere dei loro diritti di difesa». Ma c’è di più: da Strasburgo arriva un monito alle autorità, ricordando come l'obbligo di proteggere le presunte vittime di violenza di genere imponga anche il dovere di proteggere la loro immagine, dignità e vita privata, anche attraverso la non divulgazione di informazioni personali e dati estranei ai fatti. «Di conseguenza, il diritto dei giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni, che è una manifestazione dei poteri discrezionali della magistratura e del principio di indipendenza giudiziaria - sostiene la Cedu -, è limitato dall'obbligo di proteggere l'immagine e la vita privata delle persone che si presentano dinanzi ai tribunali da qualsiasi ingiustificata interferenza».