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«Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm, allora parlamentare, Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?». È una delle domande, pubblicate ieri sul quotidiano La Repubblica, che Fiammetta Borsellino ha posto a coloro che dovrebbero o avrebbero dovuto darle delle risposte sui colpevoli dell’uccisione del padre, il magistrato Paolo Borsellino, avvenuta ormai 26 anni fa in quella domenica in cui si trovava in via D’Amelio a far visita alla madre. La risposta a quella terza domanda di Fiammetta Borsellino si potrebbe trovare nelle motivazioni della sentenza, che ha concluso il primo grado di giudizio del processo Borsellino quater: Giuseppe Ayala era sul luogo della strage - ma non fu il primo ad arrivare - dopo quattro minuti dalla deflagrazione che uccise il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta. L’allora parlamentare Giuseppe Ayala giunse infatti quasi per primo in via D’Amelio al cratere. Fu sempre in quel momento che disse di aver visto la borsa di Paolo Borsellino appoggiata sul sedile posteriore della vettura, di averla presa in consegna ma di non averla aperta perché consegnata subito. Questo è un passaggio delle motivazioni sulla sentenza del Borsellino quater, più precisamente al capitolo relativo alla vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. La famosa agenda, mai trovata, dalla quale ( come è noto) il magistrato, nel periodo successi- vo alla morte di Giovanni Falcone, «non si separava mai», portandola sempre nella sua borsa di cuoio e nella quale appuntava, in modo «quasi maniacale» e con grande ampiezza di dettagli, fatti e notizie riservate, nonché le proprie riflessioni sugli accadimenti che si susseguivano.
Ma torniamo all’arrivo di Ayala sul luogo dell’attentato. Egli, come sempre nei suoi fine settimana a Palermo, anche quel 19 luglio, soggiornava nel vicinissimo Residence Marbella: per questo, appena sentita la deflagrazione, trovandosi a poche centinaia di metri da via D’Amelio, arrivò in auto, per ovvi motivi di sicurezza assieme alla scorta. «A Palermo non facevo un passo a piedi», disse al pm Domenico Gozzo, che nel corso della testimonianza al processo Borsellino Quater gli chiese come era arrivato in via D’Amelio. Ayala, riferisce al pm, di esserci andato in auto, di aver raggiunto il cratere percorrendo a piedi tutta la via sul lato sinistro del marciapiede. Un dato è certo nelle sue dichiarazioni: Ayala ricorda perfettamente la presenza di Guido Lo Forte sul luogo del fatto, perché assieme «si piegarono» per il riconoscimento del corpo dilaniato di Paolo Borsellino. Non solo, il teste lo ricorda già presente nei pressi del cratere, al momento in cui vi sopraggiungeva. Di certo per Ayala c’è che sul luogo del fatto ci fosse Lo Forte al sul arrivo; forse ancora prima dell’arrivo della volante, della cui presenza il teste non ha certezza.
La testimonianza non fu la prima occasione in cui Ayala raccontò del suo arrivo a via D’Amelio dopo la strage: era il settembre 2015 quando Ayala riferisce di essere giunto sul luogo e di non aver trovato neppure i Vigili del Fuoco e neanche le Forze dell’Ordine. È il pm Gozzo che insiste sulla questione e, in cerca di conferma sul punto, gli chiede «quindi lei sarebbe arrivato, praticamente, quasi per primo. Ecco, le chiedo se può (...) se può ricordare con noi». La domanda non è irrilevante, se si pensa che Ayala risponde «Adesso anche, voglio dire, io... qualche minuto è passato». Insiste il pm per sapere quanti minuti ci avrebbe messo ad arrivare in via D’Amelio per non trovarci neppure i soccorsi, ma solo il magistrato Lo Forte, forse anche il collega Gioacchino Natoli, citato nella contestazione del pm riguardo alle dichiarazioni rese dal teste a settembre 2015, ma non in quelle della testimonianza al processo. «Ecco quanti minuti sono passati rispetto a quando lei ha sentito la deflagrazione?», chiede il pm. La risposta di Ayala è decisa: «Ma guardi, qualche minuto è passato cinque, quattro, adesso non le so dire, poi sono sceso giù, siamo saliti in macchina, bene o male ‘ sti trecento - quattrocento metri li abbiamo fatti, poi sono sceso, insomma, a piedi ho percorso... non che via D’Amelio sia lunghissima, ma insomma, ho percorso questa strada, quindi al momento... penso dieci minuti saranno passati sicuro, quindi io penso che forse una Volante c’era, adesso però, francamente, non me lo ricordo, ma..». Però alle richieste della Procura Ayala risponde che la ricostruzione sulla presenza di «forse una volante» è logica: egli infatti tiene a precisare al pm di non avere un ricordo preciso, ma che gli sembra ragionevole supporre di sì. L’unica certezza che ha Ayala è il ricordo che ci fosse il magistrato Lo Forte, nel momento in cui si avvicinava a piedi al cratere; aggiunge, quando il pm - questa volta il magistrato Stefano Luciani - gli contesta che in una precedente dichiarazione aveva testimoniato che c’era Natoli, che «di certo c’era Lo Forte (..) se ho detto che Natoli c’era, c’era; in questo momento non me lo ricordavo. Lo Forte... lo sa probabilmente la differenza di ricordo qual è? Che Lo Forte io me lo ricordo proprio piegato assieme a me, perche ´, dico, lo abbiamo dovuto guardare molto da vicino per cercare di confermare la... l’identificazione, chiamiamola così. Magari Gioacchino Natoli sarà` rimasto in piedi, insomma, ma se ho detto che c’era, c’era».
L’insistenza delle domande del pm Gozzo, che vuole sapere con precisione dal testimone Ayala la tempistica di arrivo su luogo della strage, ha un senso. Così come ha un senso che il pm Luciani insista per sapere chi altro ci fosse in quei primi «quattro o forse cinque minuti» in via D’Amelio, quando sopraggiungeva Ayala. Ma la risposta è stata esaustiva.
Anche Lo Forte fu sentito nel corso del processo, ma le sue dichiarazioni non sono utilizzate dalla Corte per argomentare il capitolo relativo alla sparizione dell’agenda rossa. Alla domanda sul suo arrivo nel luogo della strage, Lo Forte risponde di essersi recato immediatamente con la sua auto dopo una telefonata, non ricorda di chi ma che «era domenica», e che appena giunto «c’erano già naturalmente militari esponenti delle forze dell’ordine alcuni colleghi altri sopraggiunsero dopo». Alla domanda se altri colleghi sopraggiunsero dopo di lui, tra i quali il dottor Natoli, Lo Forte risponde di non ricordare se prima o dopo perché c’era moltissima gente, ma che ci fossero tutti i colleghi «quindi ricordo in particolare il collega Ayala che trovai praticamente in preda alle lacrime, col quale mi sono abbracciato ma poi dato il momento noi eravamo del tutto attoniti».
Sull’agenda e la borsa di Borsellino anche Lo Forte diede la sua versione dei fatti alla Corte, rispondendo di non aver guardato all’interno della vettura, alla domanda se la borsa fosse aperta o chiusa o se ebbe la percezione delle condizioni eventualmente all’interno di questa autovettura «se ci fosse qualche oggetto particolare». Domande significative. Del resto nello stesso esame si parla della sparizione dell’agenda rossa, che poteva essere dentro la borsa. Quest’ultima, era sul sedile posteriore oppure sul pianale fra i sedili anteriori e quelli posteriori, ma Ayala non vi avrebbe guardato dentro, limitandosi a prenderla in mano per pochi attimi ( forse, era una persona in borghese che gliela passava), consegnandola - subito dopo - a un ufficiale dei Carabinieri che nemmeno conosceva, per poi recarsi a Mondello a rassicurare i propri figli, dal momento che il giornalista Felice Cavallaro gli raccontava della diffusione della falsa notizia che fosse proprio lui la vittima dell’attentato. Si insiste molto su questo punto, perché la logica vuole che la sparizione dell’agenda dalla borsa potesse essere avvenuta nei primi minuti, possibilmente senza la presenza di troppe persone. Ragionamenti deduttivi, ovviamente.
E l’ex ministro Carlo Vizzini, ascoltato come teste al processo sulla Trattativa Stato- mafia, ricordò via D’Amelio.
che tre giorni prima dell’attentato di via D’Amelio, cenò a Roma con Paolo Borsellino, che era nella capitale con i colleghi Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso della cena, secondo riferito da Vizzini, si parlò dell’indagine Mafia- Appalti. «Un argomento – aveva precisato Vizzini – che mi interessava fin dal 1988, quando avevo denunciato il sistema di spartizione dei lavori pubblici e gli interessi che legavano Cosa Nostra a grandi aziende nazionali. Già allora io avevo parlato dei mediatori che favorivano le grosse imprese e del ruolo che la mafia rivendicava negli appalti. Cose che furono dimostrate quando Angelo Siino cominciò a collaborare con la giustizia». Borsellino sarebbe stato molto interessato al tema, tanto che pensò di rivedere Vizzini «nelle sedi opportune», ha detto il teste, riferendosi agli uffici del palazzo di giustizia, ignaro che la procura di Palermo avesse richiesto, il 13 luglio, l’archiviazione dell’indagine Mafia- Appalti. Era il 16 luglio e tre giorni dopo Paolo Borsellino venne ucciso, insieme con gli agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina.