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‘Il processo mediatico tra diritto di cronaca e presunzione di innocenza’ è il titolo del convegno organizzato dall’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’UCPI insieme alle Camere penali di Milano, Roma e Napoli, e moderato dal giornalista Alessandro Barbano. Se il contesto istituzionale dell’evento è la decisione di qualche mese fa del Procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo e del suo omologo di Milano, Francesco Greco, di permettere ai giornalisti di avere parte degli atti giudiziari “di rilievo pubblico” – espressione alquanto contestata perché arbitraria -, tali però da non danneggiare il segreto istruttorio, il contesto più popolare lo ricorda l’avvocato Cesare Placanica, presidente dei penalisti romani: nel caso Meredith Kercher “il ribaltamento dalla sentenza di condanna di primo grado aveva provocato quasi dei tumulti popolari; le pietre e gli insulti non li indirizzavano agli imputati né agli avvocati ma ai giudici, cioè si ribellavano alla mancata conferma nella sede propria del giudizio popolare”, spesso alimentato dalle distorsioni mediatiche della narrativa processuale. La genesi del processo mediatico è caratterizzata da due elementi: la pubblicazione dell’ordinanza cautelare, in cui, come sottolinea Melillo avviene quello ‘scambio morale’ in cui la magistratura “o gli avvocati di parte civile passano le carte confidando in una rappresentazione dei fatti” a loro favorevole; e la conferenza stampa di procure e forze dell’ordine verso cui lo stesso Melillo ha manifestato la sua “idiosincrasia perché si rischia di scivolare in una eccessiva enfasi”, accompagnata dalla “convinzione che l'ufficio del pubblico ministero debba fare un passo indietro sul versante della visibilità mediatica” anche “per tessere le fila di un nuovo rapporto con l'avvocatura fondato sulla condivisione di alcuni principi”. Per Greco invece “il problema non è se dare l’informazione ma come darla” e polemizza con le Camere Penali: “da parte vostra non è mai arrivata in tal senso una proposta, a meno che non sia quella del silenzio assoluto che sarebbe ridicola”. Inoltre per il Procuratore “il processo mediatico sfugge al dominio del pubblico ministero o degli avvocati perché è un problema che riguarda le logiche dell’informazione”. Se fosse così, ma non lo è, potremmo sperare in una coscienza istituzionale dei giornalisti – obietta Barbano ad Enrico Mentana – “per cui non la quantità di notizie né la concorrenza rappresentino i nostri valori bensì la capacità di indipendenza”? Per il direttore del TG La 7, “se in un mondo etico decidiamo ad esempio di non fare il nome del politico interessato da un provvedimento giudiziario poi però non possiamo garantirci che altri non lo facciano”. E a Mentana, che ha paragonato la stampa ad un lavandino dove arrivano dai rubinetti le notizie, ha risposto il professor Luca Marafioti: “il perverso rapporto tra il lavandino e la magistratura, ossia il rubinetto, ha dimostrato che il lavandino, trasformando e ripetendo le notizie che dal rubinetto arrivano, ha alimentato una sorta di fastidio verso i ritmi del processo, verso la nozione di prova, ha confusola la notizia investigativa con il giudizio”. Una risposta è giunta anche dal professor Ennio Amodio: nella rappresentazione di Mentana “è come se il giornalista fosse vittima di questa esondazione di notizie e non potesse fare niente; ma noi sappiamo che non è così, noi sappiamo che la notizia è lavorata, che la notizia può essere presentate in mille modi, sappiamo che c’è una saldatura molto netta tra ciò che fa la Procura e ciò che pubblica il giornale”. Invece per Carlo Verna, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, che ha ricordato il nuovo protocollo sottoscritto con il CNF, “quando arriva una notizia dobbiamo capire se ha una rilevanza sociale; non c'è solo l' azione penale obbligatoria, c'è anche la pubblicazione obbligatoria di notizie che hanno rilevanza pubblica e noi dobbiamo rispondere a questa logica: questa è la nostra via maestra. I nostri paletti sono il rispetto della verità e il rispetto della persona e in questo vado incontro alle esigenze del professor Amodio”. Giusto, tuttavia, come ha sintetizzato il presidente dei penalisti milanesi, l’avvocato Andrea Soliani, “secondo uno studio dell’osservatorio informazione, tutti i contributi della stampa che attengono alla fase dell'indagine sono nella quasi totalità contributi colpevolisti. E ciò potrebbe andare ad influenzare i giudici del dibattimento e i testimoni”. Sempre sul versante delle molteplici conseguenze del processo parallelo a quello dell’aula giudiziaria si è espresso l’avvocato Giorgio Varano: “il processo mediatico costante contro i condannati” è una delle cause “della mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario nel 2018”, così come “la vicenda terribile della strage di Viareggio ha comportato una tale terribile enfatizzazione da mettere in discussione il tema della prescrizione. È partito tutto da quando i reati di lesione e incendio colposi sono stati prescritti”. Ci vorrebbero però delle risposte culturali ha detto l’avvocato Ermanno Carnevale, presidente dei penalisti napoletani: “il vero antidoto non è solo normativo – rispondendo a chi proponeva un intervento del legislatore o dei consigli disciplinari - ma è culturale; occorre costruire una cultura del linguaggio condivisa perché non ci sono leggi che possono risolvere il problema della descrizione di una vicenda giudiziaria; l’obiettivo, salvo il diritto dovere di informare, dovrebbe essere quello di utilizzare un linguaggio che non leda la dignità delle persone, a prescindere dal ruolo che si ricopre”. Ma la questione è anche politica come evidenziato dall’avvocato Luca Brezigar per cui “ per molti politici, dinanzi al giudice arriva per forza un colpevole, non avendo loro né conoscenza delle regole processuali né cultura delle garanzie”. A concludere l’incontro l’avvocato Paola Savio, il cui intervento breve ma pungente potrebbe rappresentare la chiave di lettura di un prossimo incontro sul tema, dove la prudenza lasci il posto alla reale raffigurazione della situazione e definisca seriamente le responsabilità di un fenomeno dilagante –quello della gogna mediatica – dato sfortunatamente per scontato: “ciascuna figura chiamata in causa ha il suo ordine, è vero che cane non mangia cane ma finiamola con questa farsa. Laddove ci sono delle regole, queste potrebbero essere implementate a livello ordinistico. Non dobbiamo dimenticare quei profili disciplinari che probabilmente potrebbero colpire di più, in più breve tempo e molto meglio quelle sciagurate occasioni in cui il diritto di difesa e soprattutto il principio di innocenza viene vituperato: i talk show imperversano, ogni venerdì (riferendosi ad una nota trasmissione televisiva che si occupa di cronaca nera, ndr) - siamo assolutamente profanati nella nostra intelligenza nel vedere determinate ricostruzioni”.