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Si chiamava Giuseppe Viola, 42 enne, ed è morto d’infarto nel carcere siciliano di Noto il 19 novembre scorso. A nulla sono valsi i soccorsi che prontamente sarebbero giunti nell’arco di pochi minuti. Ma c’è da usare il condizionale perché questa è la versione data dagli operatori del carcere che, però, presenta punti poco chiari e non combaciano con la testimonianza di altri detenuti che avrebbero assistito alla scena. La moglie di Giuseppe, Sara, non ci crede e ha trovato conferma ai suoi dubbi in una lettera di un detenuto che racconta tutta un’altra storia. «Quel giorno l’avevo sentito al telefono – spiega la moglie a Il Dubbio -, erano le 10 e 30 di mattina ed era tranquillo, poi dopo qualche ora mi è giunta la chiamata dal carcere per dirimi che Giuseppe è morto di infarto». Lei, accompagnata dai familiari e amici, ha raggiunto il carcere la mattina seguente e ha potuto vedere suo marito, sopra il lettino dell’obitorio del carcere. Gli operatori dell’istituto penitenziario hanno raccontato per via informale - ai familiari che Giuseppe si è sentito male e a quel punto sarebbe intervenuto prontamente il medico, con massaggi cardiaci e , all’arrivo del 118, con il defibrillatore. Ma nulla, non sono riusciti a rianimarlo. «Sono stati gentilissimi, fin troppo, - spiega Domenico, il fratello del detenuto -, ci hanno fatto entrare tutti, compresi zii e amici, e quindi ci siamo trovati a nostro agio, e, con il senno di poi dico ingenuamente, abbiamo detto che non c’era bisogno dell’autopsia». Non hanno avuto nessun referto medico, solamente il certificato di morte rilasciato dal comune. Ma è andata veramente così? Che l’assistenza sanitaria nelle carceri, in generale, è problematica, questo è un dato di fatto. Se poi c’è il rischio che qualcuno ci rimetta la vita per un presunto ritardo nel soccorso, o sottovalutazione del problema, il problema si trasforma in un dramma.
La moglie di Giuseppe, a distanza di qualche giorno, ha ricevuto la lettera di un detenuto che le ha raccontato fatti che destano inquietudine. E’ giusto – scrive – che sappiate la verità, anche se fa molto male». Chi scrive è stato testimone dell’evento e si è detto pronto a testimoniare. «A Giuseppe non gli è stato dato subito aiuto – si legge nella lettera –, anche se si trovava vicino in un reparto dove ci sono più guardie». Il detenuto spiega che non sarebbe stato portato subito in infermeria e il medico sarebbe intervenuto dopo più di 20 minuti. Pare che – sempre secondo la testimonianza – , il medico stesse visitando un detenuto che era appena entrato in carcere e quindi non avrebbe avuto tempo per dedicarsi a Giuseppe. Sono testimonianze, non prove. Però il dubbio, atroce, rimane. «Io ho visto il corpo di mio marito – racconta Sara -, e non ho visto nessun segno al petto. Possibile che un defibrillatore non lasci alcuna traccia?».
L’avvocato Silvestro Salvatore , il legale dei familiari di Giuseppe, ha fatto un esposto alla procura di Siracusa, segnalando – attraverso le notizie che gli sono giunte – «la sottovalutazione – riferisce a Il Dubbio - della sintomatologia del detenuto e che sarebbe stato visitato dopo 25 minuti quando oramai era morto».
Sono delle ipotesi, due versioni che non combaciano. Sarà quindi l’autopsia e le eventuali indagini a fare chiarezza. La questione che non lascia dormire la moglie è questa: «Se la testimonianza dei detenuti fosse vera, mio marito poteva essere salvato in tempo». Giuseppe era in carcere da luglio dello scorso anno e sarebbe uscito a febbraio prossimo.
L’assistenza sanitaria, come detto, è un problema nelle carceri. Rita Bernardini del Partito Radicale spiega a Il Dubbio che casi del genere possono benissimo sfociare in tragedia. «Basti pensare – racconta Bernardini – che molti medici sottovalutano le lamentele dei detenuti perché partono con il pregiudizio che ci vogliono marciare. Il che – sottolinea –, alcune volte, è vero visto che è una possibilità per uscire poche ore dalle celle ed entrare in infermeria, ma questo pregiudizio preclude l’accertamento di eventuali gravi malattie». L’esponente del Partito Radicale cita un caso di un detenuto di Padova che zoppicava, sentiva dei dolori, e il medico ha sempre rimandato perché pensava che fingesse, «quando poi si decise a visitarlo – spiega Bernardini – scoprirono che aveva un tumore in stato avanzato».