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Ci sono due chiavi per leggere l’incontro sulla separazione delle carriere organizzato ieri dalle toghe di Area. Da un lato il no alla riforma per la quale i penalisti raccolgono le firme dovrebbe evocare un muro insuperabile.
Dall’altra le argomentazioni ascoltate da alcuni dei relatori confermano che il dialogo tra magistrati e avvocati sulle riforme della giustizia non è mai stato, negli ultimi anni, così fitto. Un’impressione che si ricava soprattutto dagli interventi del procuratore generale di Roma Giovanni Salvi e dall’ex segretario Anm Giuseppe Cascini, sostituto della Procura capitolina. Il primo auspica «una collaborazione che può essere decisiva innanzitutto sul tema dell’efficienza e della professionalità». Il secondo raccoglie l’invito del presidente del Cnf Andrea Mascherin per una «unificazione delle carriere» di giudici e difensori e punta su «scuole post universitarie comuni di magistratura e avvocatura».
Non c’è insomma una chiusura netta, almeno nei toni. Il clima è disteso, nonostante la soverchiante maggioranza di magistrati rispetto ai due soli rappresentanti dell’avvocatura. Da una parte un altro pm romano, Mario Palazzi ( titolare, tra le altre, dell’inchiesta Consip) che fa da moderatore, il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, due toghe che hanno sperimentato la doppia funzione, giudicante e requirente, come il giudice e presidente dell’Anm Lazio Costantino De Robbio e il sostituto pg di Cassazione Paola Filippi, oltre ai ricordati Salvi e Cascini; dall’altra Andrea Mascherin e Cesare Placanica, presidente della Camera penale di Roma e in prima linea nella raccolta delle firme per la proposta di legge dell’Ucpi sulla separazione delle carriere. È proprio Placanica a sdrammatizzare con una battuta che poi contiene il senso della giornata: «Confrontarsi è già di per sé qualificante».
Ed è innegabile che alla corrente delle toghe progressiste vada dato atto di praticare il metodo del dialogo con coraggio. La tavola rotonda ha nel titolo il chiaro richiamo alla legge costituzionale d’iniziativa popo- lare promossa dai penalisti: “Il pubblico ministero nella Costituzione. La proposta di separazione delle carriere dei magistrati: opinioni a confronto”. Si discute nella ben attrezzata Aula Europa della Corte d’Appello di Roma e lo si fa, soprattutto, nel pieno di un ottimo trend nella raccolta firme, che hanno già superato la quota minima di 50mila nonostante manchino un paio di mesi alla scadenza.
A questo si aggiunga che all’interno della magistratura l’idea di separare le carriere è forse l’unica sulla quale le correnti non si dividono. Cosicché Placanica non riesce ad aprire alcuna breccia nella barriera opposta dai relatori togati, nonostante ricordi che il principio della riforma è in fondo enunciato già nell’articolo 111 della Costituzione, secondo cui «il giudice non dev’essere solo imparziale ma anche terzo». Il presidente del Cnf Mascherin prova allora a disegnare il campo di gioco prima che la strategia: «Questi sono temi su cui dobbiamo confrontarci noi, magistrati e avvocati. Meglio evitare che vi siano coinvolti i mediae la politica: sarò aristocratico nel mio modo di concepire la giurisdizione ma non credo possa discuterne chiunque. Ecco perché», dice il vertice dell’avvocatura istituzionale, «tutte le possibili riforme devono sempre tendere a realiz- zarne idealmente una: l’unificazione delle carriere di magistrati e difensori».
Un paradosso? No, di fatto è la sintesi dei concetti espressi anche da Salvi, Cascini, Albamonte, Palazzi. Lungo la strada del «riconoscimento reciproco» e del «lavoro sinergico», dice Mascherin, «possiamo partire da alcuni punti fermi: l’indipendenza e l’autonomia del pm, che non può essere dipendente dalla politica, e un modello che assicuri, nello stesso tempo, la terzietà del giudice, in modo da dare tranquillità al cittadino».
Ecco, come arrivarci? Salvi trova «impraticabile» la separazione delle carriere. E teme che insistere sulla terzietà anche ordinamentale del magistrato giudicante possa celare «un’idea non approriata di verità processuale». Questa, secondo il pg di Roma, non può essere concepita come «un gioco a somma zero in cui c’è chi vince e chi perde a seconda dell’efficacia degli strumenti usati: la verità affermata nel processo rappresenta l’esito di un accertamento probabilistico che si approssimi però il più possibile a una verità sostanziale postulata come esistente». Il processo non è una mera contesa tra tecnici del diritto, sostiene Salvi, ma lo sforzo di assicurare alla società un servizio efficace e giusto.
«Anche nel senso di concepire la giustizia come tutela rivolta innanzitutto ai più deboli», e qui il procuratore generale afferma di «condividere in pieno il discorso pronunciato da Mascherin proprio su questo tema all’inaugurazione dell’anno giudiziario». A partire da questa idea, Salvi sostiene dunque che «al di là delle carriere in magistratura ci sono diversi settori in cui magistrati e avvocati possono ragionare nell’interesse comune dei cittadini. Qui a Roma», chiarisce il pg rivolgendosi in particolare a Placanica, «nessuno di noi sa meglio cosa servirebbe per assicurare la migliore efficienza possibile. E il primo elemento è la professionalità: un pm e un difensore professionalmente ben attrezzati possono garantire la terzietà assai più del fatto che il magistrato dell’accusa condivida con il giudice lo stesso organo di autogoverno».
Cascini guarda soprattutto alla possibilità di scuole post universitarie condivise, a «percorsi comuni di formazione che siano costanti e consentano di promuovere il rafforzamento della terzietà del giudice attraverso i modelli culturali anziché quelli ordinamentali». Crede poco, l’ex segretario Anm, a una separazione delle carriere priva di rischi fatali: «Pensiamo a cosa vorrebbe dire un Csm eletto esclusivamente dai pubblici ministeri: parliamo di un migliaio appena di magistrati sugli oltre 9mila totali: quanto sarebbe forte, un simile organismo, sul piano politico, visti i poteri che avrebbe e visto che si tratta pur sempre di un corpo di funzionari vincitori di un concorso che si autogovernerebbe e che non sarebbero sottoposti certo a un giudizio elettorale? ». Argomentazione suggestiva, come dicono in genere i magistrati a proposito delle buone arringhe difensive.