PHOTO
«Quando ero ministro dell’Interno avevo avuto modo di leggere una serie di fascicoli del Sisde che riguardavano di fatto un’attività di dossieraggio nei confronti di esponenti dei vari partiti politici tra i quali uno sul mio predecessore al Viminale». Sono le parole durissime dell’ex ministro dell’Interno, Roberto Maroni, sentito nel processo sulla trattativa Stato- mafia. Che poi continua: «Anche questa vicenda - ha proseguito - mi indusse a rimuovere Domenico Salazar che era direttore del Sisde.
Da ministro dell’Interno Maroni spiazzò tutti: anziché mettere a capo del Sisde uno dei nomi graditi a Palazzo Chigi, tra i quali Mario Mori, scelse uno sconosciuto generale dei carabinieri, Gaetano Marino, che «nell’Arma si occupava di formazione». Irregolare come capo del Viminale, controcorrente come teste al processo Stato- mafia: il governatore lombardo dà ai pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene risposte che gran parte degli altri testimoni aveva sfumato nelle nebbie dell’irrilevanza. Non che offra all’accusa e alla Corte d’assise di Palermo seri elementi di prova: anche dopo la deposizione di ieri non sembra accresciuta la possibilità di arrivare a qualche condanna. Ma almeno Maroni dà notizie sulle vicende di quegli anni, in particolare sul ’ 94: una di queste rappresenta l’imputato Nicola Mancino addirittura come vittima di impropri dossieraggi da parte dei servizi. «Appena nominato ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi», racconta l’attuale presidente della Lombardia, «trovai una serie di dossier del Sisde su alcuni politici, persino sul mio predecessore all’Interno», Mancino appunto. Secondo l’allora direttore del servizio segreto civile Domenico Salazar «si trattava di informazioni legate a motivi di sicurezza». Ma davanti a pm e giudici parlermitani Maroni obietta: «Se il dossier era sulla sua sicurezza Mancino ne doveva essere informato, se non lo era a maggior ragione pensai che non erano dossier autorizzati».
Certo il caso è sconcertante: il Sisde “pedinava” per scopi incomprensibili lo stesso ministro dell’Interno. Che d’altra parte era in buona compagnia: la documentazione trovata da Maroni riguardava «diversi politici, compreso Francesco Cossiga». Nel caso dell’imputato al processo in cui depone il governatore lombardo, «capii che quei pedinamenti servivano a sapere chi incontrava e a raccogliere informazioni da usare nella battaglia politica». Lui, Maroni, prima chiuse i faldoni in una cassaforte del suo studio «per evitare che li facessero sparire», poi li portò in Senato. Si muoveva da “mina vagante”, l’allora capo del Viminale: «Ero il primo che non venisse dalla Dc». Fece fuori Salazar, scartò Mori e altri possibili successori segnalati da Parisi e preferì appunto Marino.
Il cuore dell’udienza, negli auspici dei pm, riguarderebbe il decreto del 14 luglio ’ 94, a cui Maroni e la Lega si opposero fino a farlo ritirare: «Il testo arrivato in Consiglio dei ministri non era quello originario. Ne parlai col procuratore di Palermo Caselli, mi disse che quelle norme rendevano più difficile la lotta alla mafia: c’era l’obbligo di riferire all’indagato dell’inchiesta in corso. Secondo Caselli indagini complicate sarebbero diventate impossibili». In realtà nel primo “report” fatto in proposito alla Procura, durante l’interrogatorio del 4 luglio scorso, Maroni aveva detto di aver stroncato il provvedimento in un’intervista al Tg3 per le limitazioni alle misure cautelari nei confronti di indagati per corruzione e concussione. Probabile dunque che il “movente” del decreto non fosse compiacere i mafiosi. Il no della Lega bastò a farlo accantonare. Così come il no di Berlusconi non impedì a Maroni di «nominare Gianni De Gennaro vice capo della polizia: io», dice in aula il governatore, «volevo ribadire la volontà di contrastare la mafia e, soprattutto, sparigliare i vecchi schemi». Il Cavaliere non voleva un poliziotto ritenuto “di sinistra”. Il che non emerge nella deposizione di ieri, ma non è che servisse il processo Statomafia per accertarlo.