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Sabato scorso, fuori da un supermercato di Roma, una bambina ha chiesto al padre quale fosse il motivo per cui solo lei e i cani non avessero la mascherina. «Anche tutti gli altri bambini come te non la devono indossare» – ha risposto il padre. «Noi bambini, i cani e i gatti». - «Sì, diciamo così» - «Ok – ha concluso la bambina – ho capito». La bambina aveva appena tre anni e cosa avesse capito non sembrava chiaro neanche al padre, però, tutto sommato, l’idea che in questo strano gioco la accompagnassero cani e gatti pareva rasserenarla. Dentro l’Istituto penitenziario di Rebibbia a volte un gatto entra, ma difficilmente un bambino potrebbe trovarci un cane, anzi, è praticamente impossibile. Questo significa che i quattro bambini detenuti con le loro madri all’interno della sezione Nido non possono, per evidenti motivi, giocare al gioco di quella bambina che sabato era fuori dal supermercato. Significa, per altrettanti evidenti motivi, che le spiegazioni che le madri possono dare a quei quattro bambini sono ben diverse da quelle che poteva dare quel padre. Elena ha passato un anno e un mese all’interno della sezione nido di Rebibbia, poi, nel 2017 ha finito la condanna all’interno di una casa-famiglia. Elena ricorda bene spazi e tempi della reclusione. Ricorda, per esempio, la fila che in maniera disordinata facevano i bambini davanti al portone, mentre aspettavano con ansia che qualcuno li portasse fuori. Il cappellino, i guanti e il biberon. Per qualche ora, lo stupore per il mondo attorno gli avrebbe congelato il pensiero di aver lasciato dentro la mamma. Ricorda, per esempio, il terrore che ha provato quando ha capito che il figlio capiva. Riconosceva le sbarre, le chiavi e gli agenti. Sa, infine, che i sabati di libertà, come vennero chiamati da Leda Colombini agli anni inizi degli anni ’90, rappresentavano l’unico spiraglio di realtà per suo figlio. O comunque, l’unico che, in quel momento, la madre poteva garantirgli. Certo, a Rebibbia c’è un giardino ma, conclude, rimane un carcere. Un carcere con il giardino. Oggi, nel pieno della pandemia, quei sabati son stati sospesi. Durante la prima ondata le 12 sezioni nido delle carceri d’Italia si erano praticamente svuotate. Poi, nei mesi estivi, a pandemia dimenticata, i bambini son tornati. In più di vent’anni gli appelli affinché le madri potessero scontare la pena fuori dalle carceri e sì, anche fuori dagli Icam (gli istituti a custodia attenuata), si sono quadruplicati. Negli anni, la pietà che gli adulti provano verso i bambini, anche se figli di detenute, ha fatto sì che a fasi alterne qualcuno si ricordasse che in Italia ancora circa sessanta bambini dormivano in una cella piuttosto che in una cameretta con le stelle attaccate sul soffitto. Ci si chiedeva perché non permettere al figlio di crescere in libertà mentre la madre, colpevole, pagava il prezzo alla società. Ma per chi non è mosso da pietà, bensì, da fiducia verso una giustizia diversa, sa che dentro alle carceri, non solo non dovrebbero starci quei bambini, ma neanche le loro madri. I reati commessi dalla quasi la totalità di queste donne non prevede la custodia in carcere e se il problema, come spesso avviene, è “l’idoneità del domicilio”, l’alternativa non può più essere la galera. «Lo Stato c’è e non è affatto muto», dichiarava Mario Perantoni, presidente della Commissione Giustizia della Camera, dopo l’approvazione del primo decreto “Ristori” il 27 ottobre scorso. Infatti, tra un ristoro e l’altro, non troppo visibile ma neanche troppo nascosto, compare una frase: «Ridurre le eccessive presenze negli istituti penitenziari per la durata e il procrastinarsi del periodo di emergenza igienico-sanitaria». Durante questi mesi, braccialetti elettronici permettendo, il magistrato di sorveglianza può permettere al detenuto, che abbia una pena inferiore ai 18 mesi, di uscire dal carcere e accedere alla detenzione domiciliare. La riduzione dell’eccessiva presenza è, dice lo Stato che non è muto, collegata al procrastinarsi del periodo di emergenza sanitaria. La preoccupazione, quindi, è che il ministero della Giustizia si accorga dell’alternativa alla detenzione solo quando non c’è alternativa. In un appello, firmato il 16 ottobre da A Roma Insieme, La Gabbianella e Terre des Hommes, si chiede che la Commissione Giustizia prenda in mano le proposte di modifica della legge 61/11 e si attivi affinché lo Stato permetta alle madri detenute di scontare la propria pena in una casa-famiglia sempre, e non solo quando il Covid- 19 fa tremare le celle degli istituti. Elena domani andrà al supermercato con i suoi tre figli. Il più piccolo, dice, non sembra ricordare il carcere. In fondo, spera che quel momento arrivi anche per lei.