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Abbiamo pubblicato nei giorni scorsi, in due puntate, un articolo di Giovanni Canzio sull’indipendenza della magistratura. Canzio, come sapete, da poche settimane ha lasciato il suo incarico di Presidente della Corte di Cassazione. Ha una storia lunga e da protagonista nella magistratura italiana ed è un giurista serio e forte. Nel suo articolo, con molti argomenti, ha sostenuto l’importanza e la necessità della piena indipendenza di tutta la magistratura. Ma ha anche sostenuto la necessità assoluta dell’indipendenza dell’avvocatura e ci ha spiegato in modo assai convincente come queste due “indipendenze” siano complementari e indispensabili l’una a l’altra. Canzio ha raccontato con molti dettagli come è nata, in Italia, la scelta dell’indipendenza, e come si è affermata soprattutto dopo la caduta del fascismo e in seguito alla spinta di un gigante del diritto quale è stato Piero Calamandrei. Naturalmente non è obbligatorio essere d’accordo con Canzio. L’indipendenza della magistratura non è un dogma assoluto dello Stato di diritto. Ci sono paesi con sistemi democratici fortissimi, come la Francia o gli Stati Uniti, nei quali l’indipendenza della magistratura è limitata, e alcune funzioni sono sottoposte al potere politico, o sono elettive, e spesso sono a tempo. È chiaro che la discussione è aperta.La forza dell’articolo di Canzio, secondo me, poggiava su due elementi molto solidi. Il primo è l’assoluta assenza di faziosità dei suoi ragionamenti, che permette anche a chi non è d’accordo di comprendere le ragioni profonde che spingono per l’indipendenza. Il secondo è la costruzione generale nella quale Canzio pone l’indipendenza della magistratura come elemento essenziale, ma non sufficiente, dell’indipendenza della giurisdizione. È l’indipendenza della giurisdizione, per Canzio, lo scopo. E l’indipendenza della magistratura diventa solamente uno strumento per realizzare questo scopo. Proprio per questa ragione Canzio indica la necessità di uno sforzo per evitare che l’indipendenza sia vissuta da una parte dei magistrati come privilegio o come puro strumento di potere.Coerentemente con questa impostazione, Canzio pone la questione dell’indipendenza dell’avvocatura sullo stesso piano dell’indipendenza dei Pm e dei giudici. Naturalmente, però, il problema non si risolve semplicemente con una affermazione di parità, o di pari dignità. Perché la parità tra magistratura e avvocatura al momento non esiste. Tanto è vero che la figura del magistrato è scritta in Costituzione, ed in Costituzione è affermato il principio della sua indipendenza da tutto fuorché dalla legge, mentre la figura dell’avvocato in Costituzione non c’è, o comunque non gode della stessa considerazione, né degli stessi diritti.Voi sapete che il Cnf, cioè il Consiglio nazionale forense, da un po’ di tempo ha posto questo obiettivo al centro della sua azione. E cioè la richiesta dell’introduzione in Costituzione della figura dell’avvocato. E se avete letto l’articolo di Giovanni Canzio avrete notato che anche lui non è affatto contrario a questa innovazione, perché la ritiene perfettamente in linea con la battaglia per l’indipendenza.Non è una questione secondaria,né un sofisma. L’introduzione dell’avvocato in Costituzione è la riapertura di quel percorso riformatore della giurisdizione che iniziò alla fine degli anni ottanta con la riforma del codice di procedura e con la sostituzione del sistema inquisitorio col sistema accusatorio, ma poi si interruppe. La riforma del codice di procedura ebbe una lunghissima incubazione, Il Parlamento ne discusse per più di dieci anni. E ne discussero, come consulenti del Parlamento, i massimi giuristi italiani. Ci furono grandi battaglie. Si susseguirono ben quattro legislature prima dell’entrata in vigore, e cambiarono anche le maggioranze di governo. Quella discussione avvenne in un periodo molto difficile della storia italiana. Con un indice di criminalità altissimo, con la lotta armata all’apice della sua potenza, con la mafia in guerra ( in guerra interna e in guerra con lo Stato) che produceva morti ogni giorno. Eppure la riforma passò, prevedendo l’assoluta parità tra difesa e accusa, aumentando il coefficiente “garantista”, producendo la modifica dell’articolo 111 della Costituzione, e imponendo una idea molto avanzata e molto moderna di Stato di diritto. Tanti giuristi scrissero a suo favore, e anche molti magistrati inquirenti. Basta fare il nome più famoso: quello di Giovanni Falcone, che ragionò approfonditamente sulla necessità che il funzionamento del nuovo codice fosse garantito da un pacchetto di ulteriori riforme ( a partire dalla separazione della carriere). Ma invece la spinta che aveva portato a scegliere il sistema accusatorio si fermò, forse per via di Tangentopoli, e la riforma restò a metà.Nessuno oggi se la sente di affermare che avvocati e Pm sono sullo stesso piano, nel processo. Basta pensare che ancora fino a qualche mese fa un processo si interrompeva se la giudice donna era incinta ma invece proseguiva se era incinta l’avvocata. Per non parlare dell’enorme differenza di strumenti di indagine e di produzione di indizi e prove che esiste tra Pm e difensori.Da dove si può partire per rimettere in moto una spinta che riporti lo Stato di diritto al suo pieno funzionamento? Probabilmente la riforma della Costituzione sanerebbe almeno sul piano dei principi gli squilibri che ancora esistono. E probabilmente potrebbe essere realizzata anche con l’appoggio di una parte significativa della magistratura. Bisogna vedere se la politica trova il coraggio per affrontare una simile questione. È una riforma che non porta tanti voti, porta solo a un rafforzamento del nostro sistema democratico. Ai partiti politici interessa questo rafforzamento?