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Il DdL sicurezza prevede, fra le varie misure repressive, la non obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e per le madri di bambini fino a un anno di età. Il rinvio non solo diventa facoltativo, con tutti i problemi inevitabilmente legati anche alle tempistiche per ottenerlo, ma può essere rifiutato laddove si ritenga che la donna possa commettere ulteriori reati. Abbiamo sempre affermato che nessun bambino e bambina dovrebbe stare in carcere, che il carcere non è luogo dove la relazione madre bambino possa essere serena, tantomeno può essere il luogo ove una donna possa portare avanti in condizioni di sicurezza e dignità la propria gravidanza e, infine, partorire. E neppure possono essere soluzioni congrue gli Icam, istituti a custodia attenuata, che sono pur sempre strutture carcerarie.
Né sarebbe sostenibile la soluzione di separare i neonati e le neonate dalle proprie madri, come ricordato sia dal CPT-Comitato Prevenzione Tortura che dalla Corte Europea dei Diritti Umani che cita la pertinente disposizione dell’Oms, secondo cui un neonato sano deve rimanere con la propria madre. Rilanciamo quindi con forza i contenuti della campagna “Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere, insieme ai loro bambini”, che due anni fa ha visto una forte mobilitazione a difesa dei diritti delle donne e dei figli. Dobbiamo contrastare le norme del ddl governativo, superare gli Icam e costruire le case famiglia. Chiediamo l’adesione, sia di singoli sia di associazioni, da inviare a info@ societadellaragione. it
Sottoscrivono l’appello: Daniela Dacci, Denise Amerini, Maria Luisa Boccia, Grazia Zuffa, Sofia Ciuffoletti, La Società della Ragione, CRS- Centro Riforma Stato, L’Altro Diritto, Katia Poneti, Susanna Ronconi, Giulia Melani, Michele Passione, Patrizia Meringolo, Franco Corleone, Monica Toraldo di Francia, Francesca Torricelli, Vincenzo Scalia, Stefano Anastasia, Tamar Pitch, Leonardo Fiorentini, Giusi Furnari, Valentina Calderone, Susanna Marietti, Ornella Favero, Redazione Ristretti Orizzonti, Antigone, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia sottoporre l’attività rieducativa alla verifica di personale adeguato, come psicologi e assistenti sociali. La risposta non può essere affidata solo al personale di polizia penitenziaria, servono anche figure diverse per la salute psichiatrica dei detenuti, che non va seguita solo nel momento patologico, ma in un percorso costante, un processo di accompagnamento. E poi la reclusione, se non rispetta la dignità della persona, se non rispetta lo stesso status di lavoratore del corpo di polizia penitenziaria, determina inevitabilmente un aumento della violenza interna ed esterna. Spesso chi entra come un semplice balordo ne esce criminale. E molti, una volta usciti, rientrano nel circuito criminale, perché non trovano differenza tra lo stare fuori e lo stare dentro. Dovremmo superare il fatto che qualsiasi condotta di disvalore vada punita con il carcere. Anche perché la Costituzione, quando parla di pene, non dice necessariamente in carcere. Che, spesso, diventa un luogo in cui rinchiudere chi non ha fissa dimora e, dunque, non può neanche usufruire di misure alternative, finendo per vivere in una specie di limbo. Credo che anche questo sia preoccupante.
C’è poi il problema delle Rems. Sì e non solo in Umbria. C'è carenza di strutture. Ci sono persone che non possono stare in carcere, ma nello stesso tempo sono praticamente abbandonate, con una forma di libertà vigilata che a volte è di poco conto e quindi avrebbero necessità sia di un controllo, per ragioni di sicurezza sociale, sia di cure.