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Un «falso innocente». Il tribunale di Locri non risparmia nulla a Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, condannato a 13 anni e due mesi nell’ambito del processo Xenia. Una sentenza di quasi mille pagine con la quale il collegio presieduto da Fulvio Accurso sembra soprattutto difendersi dalle accuse di aver fatto un processo politico, condannando la narrazione esterna su Riace e sull’operato di Lucano, richiamata a più riprese per giustificare una condanna durissima, sulla base di un principio che si esplicita tra le prime pagine: Lucano e i suoi “sodali” avrebbero agito in nome di una «logica predatoria delle risorse pubbliche» che sarebbero servite a soddisfare «appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica» - nonostante abbia rifiutato qualunque occasione per “salire” di grado - «e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell’accoglienza dei migranti», diventato «un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico che essi attuavano, per fini esclusivamente individuali». Lucano sarebbe stato sì un politico illuminato, capace di creare, ispirandosi agli ideali utopici della Città del Sole di Tommaso Campanella, un sistema all’inizio apprezzabile. Ma poi tutto ciò sarebbe sparito. E «nulla importa che sia stato trovato senza un euro in tasca, come orgogliosamente egli stesso si è vantato di sostenere a più riprese», scrivono i giudici, «perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza». Insomma: utilizzando i fondi dell’accoglienza per ristrutturare il frantoio e creare l’albergo diffuso, che hanno dato lavoro a migranti e riacesi, Lucano avrebbe creato una sorta di “fondo pensionistico” per gli anni a venire. Sfruttando il suo ruolo di «dominus indiscusso del sodalizio», un’organizzazione «tutt’altro che rudimentale», che avrebbe strumentalizzato «il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica». I suoi sodali, in cambio, lo avrebbero sostenuto politicamente, portando in dote il loro pacchetto di voti, risultati comunque inutili a eleggerlo persino consigliere comunale alle ultime elezioni comunali.
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Ma c’è di più: nel motivare la propria decisione, il tribunale punta spesso il dito contro le difese, che avrebbero guardato il processo «da lontano», cercando «a più riprese di sorvolare sulla pregnante ed inequivoca conducenza dei documenti e delle intercettazioni» nel tentativo «di accreditare una lettura delle prove che fosse del tutto “esterna” al procedimento, facendo leva su una sorta di persecuzione politica che avrebbe ricevuto l’ex sindaco Lucano». Delle «lenti deformanti» che invece non sarebbero state usate della procura, nei confronti della quale il tribunale, a pagina 98, si lancia in difesa, sottolineando «l’indipendenza della sua azione». E ciò perché non sarebbero state le relazioni della Prefettura, affermano i giudici, a far partire l’inchiesta, come più volte si è sostenuto: tutto è nato dalla querela - poi rivelatasi infondata - di un commerciante, che lo accusava di concussione. I giudici a questo punto citano proprio le sentenze della giustizia amministrativa, che aveva censurato la chiusura dei progetti voluta dal Viminale, pur evidenziando le criticità del sistema. Un annullamento motivato solo da motivi di ordine procedurale, scrivono i giudici, evidenziando un giudizio «tutt’altro che benevolo sull’operato del Comune di Riace». Ma sono quelle stesse sentenze ad evidenziare un aspetto che, invece, il tribunale di Locri non riconosce nel recente passato di Lucano: «Che il “modello Riace” fosse assolutamente encomiabile negli intenti ed anche negli esiti del processo di integrazione - si legge nella decisione del Tar, poi confermata dal Consiglio di Stato - è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti dall’amministrazione resistente». Per i giudici, invece, ai migranti sarebbero stati destinati gli scarti di quel modello, servito ad arricchire gli imputati. Colpa di Lucano (e di tutti gli altri imputati) è stata anche quella di essersi sottratto all’esame durante il processo, impedendo al collegio di porgli domande. Nessuna attenuante, dunque, non essendoci «traccia dei particolari motivi di valore morale o sociale per i quali avrebbe agito». Quello che è emerso dal processo, secondo i giudici, è «un quadro per nulla rassicurante e a tinte fosche»: pur certificando l’integrazione «virtuosa e solidale che nei primi anni veniva senz’altro praticata su quel territorio», si sarebbe arrivati alla nascita di una banda dedita a ruberie, tramite «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità», un vero e proprio «“arrembaggio” ai cospicui finanziamenti che arrivavano in quel paesino». Insomma, «non vi è alcuna traccia dei fantomatici “reati di umanità” che sono stati in più occasione evocati da più parti, in quanto le vorticose sottrazioni che sono state compiute non servivano affatto a migliorare il sistema di accoglienza e la qualità dell’integrazione dei migranti, ma solo a trarre profitto».