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Le notizie pubblicate da Il Dubbio sulla rivolta dei sindacati dei lavoratori della giustizia preoccupati per il ritorno in massa degli avvocati in tribunale mi hanno fatto sobbalzare. Il mondo è proprio cambiato, ho pensato, anche se un rapido giro di telefonate a qualche amico cancelliere mi ha rassicurato. Antonio in Corte d’Appello mi aspetta volentieri per un caffè, Demetrio in Procura mi attende per un commento sul campionato di calcio finalmente ripreso e con Ciccio in Tribunale si parlerà volentieri di qualche posto al sole del Sud.
Si tratta di uno scontro di civiltà: quello tra la Giustizia bendata e digitale che si muove a distanza con massimari elettronici e applicazioni anche per andare in bagno e la Giustizia umana e sorridente del Cancelliere che nel corridoio ti canticchia ironico una strofa dell’inno della sua squadre del cuore quando la tua ha perso. Io naturalmente sono un ultrà della seconda.
Certo, capisco il rischio che una contiguità troppo stretto tra personale di cancelleria ( come viene orrendamente definito in gergo burocratico) e avvocati sia pericolosa per chi immagina una spersonalizzazione totale del diritto e per questo si è inventato l’orrore degli U. R. P. dove l’avvocato degradato a pubblico si mette in coda allo sportello dove uno sconosciuto gli sbatte in faccia l’inevitabile “dica”. Ma io ho una storia alle spalle, fatta di preture polverose in fondo a provincie dimenticate ma bellissime e di lunghe attese nei corridoi e nella aule con le toghe consumate messe sui banchi in attesa di sentenze o semplicemente del turno per il deposito di un atto.
Metà delle cose che so nel mio mestiere me le hanno insegnate i cancellieri: da dove mettere la marca da bollo, a come compilare una nota di iscrizione a ruolo a come vestirsi in Tribunale. E poi confidenze sulla giurisprudenza e sulla vita: entri a depositare un appello e ti ritrovi a parlare del concerto di Fred Bongusto a Palinuro nel 1979.
Il collega che aspetta magari si sarà lamentato dell’attesa, ma io intanto di come è andato a finire l’appello me lo sono dimenticato, ma della descrizione di quella sera d’estate no e quando tornerò a depositare il ricorso in Cassazione mi faccio pure raccontare di quella sera che il cancelliere amico parlò con Peppino di Capri.
Sì lo ammetto: in Cancelleria perdo tempo e mi piace perderlo. Ma quel tempo poi diventa un guadagno di umanità, di comprensione della vita e delle persone : l’essenza della professione di avvocato.
E quindi alla faccia del Covid e degli appuntamenti sul sito per ottimizzare tempi e risorse umane che potranno andare bene alle “law firm “ americane ma che non sono propria cosa per gli avvocati nostrali come me, sono lieto e contento di andare a passeggiare per i corridoi del Palazzo di Giustizia con la mia borsa di carte e cartuscelle, come una specie di venditore ambulante sui treni di seconda classe sulla tratta Livorno- Battipaglia.
Il piacere non è solo quello di portare a casa il pane, ma di fare due o anche quattro chiacchiere mentre intanto , senza accorgersene passano il tempo e la vita. Questo è stato il Foro da noi in Italia. Non radiamolo al suolo per costruirci sopra una torre di cemento e vetro cieco.